L’ansia da palco in ambito artistico. Possibili interventi.

Potrebbe sembrare strano che una persona che svolge un’attività artistica a livello professionale o amatoriale possa “soffrire” di ansia da palcoscenico, eppure che l’artista in questione sia un musicista, un attore o che debba danzare, l’aspetto emozionale-psicologico si riflette direttamente su quello comportamentale rischiando di invalidare in maniera più o meno significativa la performance artistica.
Le conseguenze di un vissuto ansioso una volta saliti sul palco si manifestano a livello fisico, emotivo e cognitivo e vanno direttamente in conflitto con la voglia ed il desiderio dell’artista di mettersi in gioco e trasmettere al pubblico il proprio talento, la propria personalità e le proprie emozioni attraverso il canale artistico che gli è più consono.
L’espressività fisica, la mimica facciale, la capacità di gestire le proprie abilità vocali o la fluidità dei movimenti rappresentano diversi aspetti artistici che possono essere influenzati negativamente.
L’ansia da palcoscenico ha caratteristiche simili all’ansia da prestazione o sociale.
In entrambi i casi si possono rilevare timori legati al giudizio altrui riguardo la propria performance. Differentemente chi sale su un palco ha, come detto, la voglia di mettersi in gioco ponendosi volontariamente ad un pubblico giudizio accettando le conseguenze positive o negative della performance offerta.
L’ansia che l’artista vive è in parte dovuta ad un tratto caratteriale ed in parte dovuta allo stato psicologico evocato dalla situazione che sta vivendo e si manifesta su diversi livelli: emotivo, fisico, cognitivo e comportamentale.
Tale combinazione può creare un quadro disfunzionale per l’artista e per la prestazione in quanto rischia di perdere il senso del “qui ed ora” necessario per rimanere “centrato” e focalizzato.
Se l’ansia sorge relativamente ad una performance futura e/o imminente, spesso essa è rafforzata da uno o più eventi spiacevoli avvenuti nel passato. In tal modo si crea un quadro situazionale per il quale chi viva l’ansia da palco proietta un possibile fallimento futuro sulla base di uno o più eventi passati.
Così come avviene nello sport, la persona si trova a metà tra i ricordi del passato e le proiezioni negative del futuro venendo meno, di fatto, il loro essere nel presente, nel “qui ed ora” dove è più importante che si trovino.
Questa situazione avrà molto probabilmente una ripercussione negativa sulla prestazione con il rischio di arrivare all’evitamento dell’evento ansiogeno.
Il trattamento dell’ansia da palco prevede un lavoro di sostegno e rinforzo delle abilità abilità cognitive della persona.
Si può lavorare sul pensiero, sull’aspetto emotivo e sulla capacità di modulazione dello stesso, sul senso di autoefficacia e, di consegienza, di autostima.
In molte occasioni la chiave di volta risiedeva in un aspetto della vita dell’artista che nemmeno lui o lei immaginava ma che, una volta trattati gli aspetti più in superficie, emergevano in maniera prepotente e che spesso non erano direttamente legati alla disciplina artistica praticata.


L’artista perciò ha la possibilità di affrontare diverse problematiche attraverso alcuni interventi risultati particolarmente efficaci:

Si può lavorare attraverso tecniche di :

Training autogeno

Esercizi fisici (respirazione, rilassamento, stretching)

Tecniche cognitive (desensibilizzazione)

Strategie di Coping

Mental Training e Tecniche di Rilassamento e Visualizzazione.

Queste forme di intervento risultano particolarmente efficaci, soprattutto se combinate tra di loro in relazione alle necessità della persona e del suo vissuto.
Le conseguenze positive riguardano la
Comprensione di sé, Capacità di autoregolazione e stabilizzazione emotiva dell’individuo, il miglioramento della prestazione o della performance dell’artista.

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La gestione di un gruppo di lavoro: alcuni fattori da considerare.

Tutti i componenti della squadra sono uguali! Questa, per mia esperienza, è una tra le affermazioni più inesatte e fuorvianti quando si parla di gestione di gruppi di lavoro, squadre sportive o equipe impegnate in diverse mansioni.
La verità è che il gruppo è formato da persone molto diverse tra di loro e come tali vanno gestite.
Se i principi davanti ai quali tutti sono uguali devono essere le regole che accomunano un’equipe professionale ed il fine ultimo verso il quale tutti sono indirizzati, i soggetti, i professionisti, le persone che un responsabile/leader coordina devono essere approcciati in maniera diversa gli uni dagli altri.

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Per esercitare una leadership efficace è necessario saper leggere le differenti persone che si hanno davanti e i quadri situazionali nei quali sono inseriti in modo da essere in grado di individuare ed interpretare i bisogni, le aspirazioni e le potenzialità dei componenti del gruppo.
Bisogni, aspirazioni e potenzialità rispondono ad alcune caratteristiche comuni alla maggior parte delle persone e rappresentano Fattori che influenzano in maniera significativa le dinamiche e le relazioni all’interno di un gruppo di lavoro.
Va considerato che tali Fattori vengono vissuti da ogni professionista in maniera molto soggettiva e producono una reazione a livello emozionale, comportamentale  e psicologica che influisce direttamente sul livello motivazionale e produttivo del soggetto in questione.
Prendiamo in esame innanzitutto che le persone hanno bisogno di appagare il loro desiderio di prestigio e di considerazione.
Risulta perciò fondamentale fargli comprendere che ci fidiamo di loro e che ne abbiamo considerazione.
Viceversa, niente è più squalificante per un collaboratore del fargli capire che viene messo al corrente solo del minimo indispensabile che deve assolutamente conoscere per svolgere debitamente il proprio lavoro.
Un leader esperto e che sa leggere bene la situazione che ha davanti, osserva con attenzione i comportamenti dei suoi
collaboratori, non tarderà a riconoscere quelli che manifestano più sensibilità di altri verso l’acquisizione del prestigio personale.
La comprensione di questo desiderio costituirà il primo passo per mettere a punto una strategia di motivazione verso queste persone e trasformarle da campioni potenziali in campioni a pieno titolo.
Attenzione, perchè anche la motivazione deve essere studiata bene.
Spesso l’incentivo economico rappresenta la leva motivazionale principalmente utilizzata nelle aziende e senza dubbio essa rappresenta per molti il giusto mezzo motivazionale, ma con le persone che sembrano preoccuparsi più dell’affermazione personale che dei vantaggi materiali derivanti dal successo, le ricompense, pur gradite,  non sono altrettanto essenziali quanto l’affermazione stessa. Queste persone sono più caricate dal fatto di aver superato o risolto un difficile problema, che non da qualsiasi premio in denaro.
Perciò innanzitutto, non tutte le persone sono motivabili con l’uso esclusivo della ricompensa economica.
Ci sono collaboratori per i quali un pubblico elogio è di gran lunga più importante e gratificante di un premio in denaro.
Un buon coordinatore riesce ad offrire ai collaboratori più sensibili all’autoaffermazione il maggior numero possibile di occasioni per riportare successi e per affermarsi agli occhi
degli altri e di se stessi.
Facendo leva sul loro desiderio di emergere, può stimolarli a raggiungere obiettivi più elevati,con soddisfazione sua, loro e dell’azienda.
La motivazione di un collaboratore può avere svariate sfaccettature ed avere origine anche dall’assegnazione di compiti e responsabilità.
Esistono persone per le quali riveste una grande importanza qualificarsi
professionalmente e apprendere continuamente cose nuove.
Esse si motivano quando viene loro assegnato un compito attraverso il quale hanno occasione di sviluppare nuove capacità.
Un buon gestore di un’equipe di lavoro può anche riflettere sul fatto che, forse, tra i propri collaboratori ce ne sia uno che da tanto tempo aspetta che gli venga affidato un determinato compito, attraverso il quale potrebbe avere l’occasione di migliorare ulteriormente il suo rendimento e il suo spirito d’iniziativa.
Un altro aspetto da tenere in considerazione, come detto, è rappresentato dai fattori emozionale e comportamentale che influiscono sul rendimento professionale e quindi produttivo.
Alcuni manager sono convinti di poter ottenere molto attraverso il timore o la pressione psicologica che riescono a incutere ai loro collaboratori.
Solo in poche occasioni questo approccio può rivelarsi utile e comunque nel breve periodo. Sulla lunga distanza, e dunque nella prospettiva di un rapporto duraturo, il timore e la pressione psicologica non paga, perché produce frustrazione.
È questo un caso esemplare di quando affermo che non tutte le persone vanno trattate allo stesso modo. Molte persone fanno fatica a  sopportare per molto tempo una situazione frustrante e pressante e sentendovisi costrette vivono l’ambiente lavorativo e le relazioni con i superiori con ansia e disagio abbassando significativamente il lorl livello di performance lavorativa.
Vi sono invece collaboratori che utilizzano la loro aggressività mettendosi a cercare un’alternativa che li tolga dal clima di insicurezza e di timore, mentre i meno validi sfogheranno la loro aggressività all’interno del gruppo, fomentando rancori e alimentando il malumore.
L’aspetto negativo è che in entrambi i casi, il manager non ci avrà guadagnato nulla!!!
Piuttosto egli potrebbe assumere comportamenti che non provochino paure e pressioni nei collaboratori e preferire un approccio che favorisca tra i collaboratori la percezione di competenza, fiducia e sicurezza per aiutarli a diventare migliori e per fare in modo che, oltre agli obiettivi dell’azienda, essi possano realizzare anche i loro obiettivi personali senza voler coglierli in fallo alla prima occasione.
Vi sono perciò diversi aspetti che vanno presi in considerazione per gestire in maniera produttiva e funzionale un gruppo di lavoro e spesso gli impegni, le scadenze e lo stress derivante dal lavoro stesso rischiano di far si che un manager non abbia la prontezza o la lucidità per affrontare con oculatezza le diverse problematiche che comporta il coordinamento dei collaboratori.

L’utilità della Mindfulness: l’esercizio corporeo come strumento terapeutico.

Ogni tensione muscolare, sia essa cronica (parte cioè della nostra armatura caratteriale), oppure generata da uno stress temporaneo di qualsiasi genere e gravità è un “buco” nella nostra capacità di sentire il nostro corpo, quindi di percepire noi stessi.

Nella contrazione rimane trattenuta l’energia dell’emozione “pericolosa” che ci siamo negati: di conseguenza, non solo non siamo più in grado di agirla (piangendo, urlando, ridendo, pestando i piedi) ma non siamo neppure più capaci di sentirla.

Ogni tensione muscolare è un vuoto nella nostra capacità di percepire noi stessi, un vuoto nel nostro senso di identità.

Il corpo di ogni persona può essere rappresentato come una “mappa dei buchi d’identità” che lo caratterizzano; una mappa, cioè delle parti bloccate, insensibili, tagliate fuori dalla percezione. Poiché si tratta di buchi nella percezione della propria identità corporea ed emozionale, quindi nella consapevolezza della propria realtà, le persone tenderanno a privilegiare l’identificazione con un’immagine ideale di sé, costruita sulla base di “ideali dell’Io” e “illusioni dell’Io”.

Come abbiamo visto, specifici ideali e illusioni caratterizzano ogni tipo caratteriale. L’analisi bioenergetica ha proprio l’obiettivo di portare le persone a disidentificarsi con la propria immagine ideale, o narcisistica, e a ricongiungersi con la propria realtà fisica ed emotiva. Per farlo, abbina allo strumento verbale, tipico delle altre terapie, uno strumento che le è peculiare: l’esercizio corporeo.

Gli esercizi, sciogliendo le tensioni e i blocchi muscolari, consentono alle persone di evocare e rivivere le emozioni che in quelle tensioni e in quei blocchi erano custodite. Quando le emozioni rimosse riemergono alla consapevolezza, vengono elaborate analiticamente con il terapeuta, e via via reintegrate nel senso di identità delle persone.

Il percorso si sviluppa su 5 step.
Nelle terapie individuali o di gruppo, con la bioenergetica si eseguono specifici esercizi volti a sciogliere tensioni e blocchi muscolari nelle diverse aree del corpo con la guida e l’aiuto di un conduttore.
Contrazioni generate da stress temporanei ma anche blocchi cronici, inscritti nell’armatura caratteriale si possono affrontare con esercizi attraverso i quali il corpo si libera dalle tensioni, l’energia intrappolata nei muscoli contratti riprende a circolare, e le persone possono rientrare in contatto con quelle parti di sé che si erano chiuse alla loro percezione.
Poichè l’investimento corporeo ed emotivo a volte si rivela molto elevato, durante i 5 step il conduttore segue la persona o il gruppo gestendo momenti di particolare attivazione emozionale (come un pianto improvviso) aiutandoli a respirare profondamente e a gestire il momento. Il conduttore, che propone gli esercizi e vigila sui processi in atto, è insomma una presenza che garantisce contenimento al gruppo, e sostegno alle singole persone che si trovino a vivere emozioni che da sole non riescono ad arginare.
Ogni esercizio si sviluppa secondo un ciclo di “contrazione” ed espansione, che è il ciclo naturale dell’energia. Nella fase di “contrazione” il muscolo (o il gruppo di muscoli) su cui si sta lavorando viene sottoposto a tensione. Quest’aumento di tensione, provocato volontariamente, è, in qualche modo, una cura di tipo omeopatico: sovrapponendo tensione (volontaria) a tensione (involontaria e preesistente) il corpo viene stimolato a reagire, rilasciando e liberando lo stress contenuto in quell’area.
La liberazione della carica avviene tramite movimenti vibratori, che in genere si sviluppano involontariamente quando i muscoli raggiungono la tensione limite, ma può essere resa più immediata da un movimento espressivo.
Per esempio i polpacci: se costretti con opportuni esercizi a tendersi e caricarsi, a un certo punto iniziano spontaneamente a vibrare, e questo processo naturale può essere rafforzato invitando le persone a scalciare, o a battere i piedi per terra. Dopo la scarica, l’organismo può finalmente rilassarsi: scarica e rilassamento coincidono con il momento dell’espansione.
La tensione muscolare accumulata in risposta alle situazioni ambientali e sociali quotidiane può essere paragonata a un’automobile che, bloccata in mezzo alla strada, impedisce il normale fluire del traffico: a poco a poco la circolazione ne risente, non solo in quella strada, ma in tutta la zona, e alla fine nell’intera città. Se si riesce a far ripartire l’auto, la circolazione riprende invece a fluire regolarmente.
Così all’interno delle persone un blocco muscolare impedisce il normale fluire di energia metabolica (sangue e respiro) non solo nell’area interessata al blocco, ma in varia misura in tutto l’organismo. Quando si consente alla tensione muscolare di scaricarsi, e quindi ai muscoli di rilassarsi, tutti i fluidi vitali riprendono a circolare liberamente, col risultato di rimettere le persone in contatto con il loro corpo e le loro emozioni (nelle parti in cui non scorre energia, infatti, non si percepisce il proprio corpo, né le emozioni lì trattenute).

Il Biofeedback: dal wellness allo sport professionistico.

 

Accanto alle classiche tecniche di respirazione come quella anti stress e quella diaframmatica, l’autoregolazione dei principali processi fisiologici (tra i quali appunto la respirazione) può avvenire anche attraverso la tecnica del Biofeedback.

Con l’utilizzo di apparecchiature adeguate, si possono misurare attività fisiologiche come le onde cerebrali, la funzione cardiaca, la respirazione, l’attività muscolare e la temperatura cutanea riproposte come stimoli visivi e uditivi.

In questo modo il biofeedback si affianca e supporta l’intervento psicologico fornendo in maniera rapida ed accurata un feedback sugli indici fisiologici considerati al fine di strutturare un intervento.

La presentazione di un’informazione di “feedback” in concomitanza con modificazioni cognitive, emotive e comportamentali favorisce i cambiamenti fisiologici desiderati che possono perdurare nel tempo senza l’uso dell’apparecchiatura e responsabilizzando l’individuo a mantenere un ruolo maggiormente attivo nel mantenimento della salute personale e dell’integrazione “mente corpo”.

Alla base della tecnica del BF si possono individuare alcuni presupposti:

  • Ogni cambiamento psicologico influenza l’attività fisiologica e ogni cambiamento fisiologico influenza l’attività psicologica.
  • Le persone possono sviluppare abilità di autoregolazione se viene loro fornito un feedback accurato. Possono imparare a regolare volontariamente un segnale fisiologico a patto che gli venga fornito un feedback in maniera accurata. Se posso vedere una linea che indica come cambia la tensione muscolare nel tempo, misurata in maniera molto accurata, usando una strategia per prove ed errori, riuscirò a controllare volontariamente il tono muscolare, piuttosto che la frequenza cardiaca o ogni altra funzione fisiologica.
  • La salute e la prestazione sono associate a precisi stati psicologici e fisiologici. Attraverso il BF training si ottiene una migliore autoregolazione psico- fisiologica migliorando la salute e la prestazione.

La finalità perciò del BF è la capacità di apprendere come modificare la propria fisiologia e quindi stare meglio e aumentare la propria prestazione.

I cambiamenti attraverso un training di BF avvengono per mezzo di un processo di apprendimento, associato a cambiamenti cognitivi, emotivi e comportamentali, per i quali si ha un cambiamento nel funzionamento fisiologico.

L’apprendimento sviluppa la consapevolezza degli stati fisiologici, la fiducia nel poterli cambiare, la capacità di modificare lo stato psicofisiologico.

A livello di pratica sportiva il biofeedback è ancora poco conosciuto ed utilizzato e non è, ad oggi, ancora considerato parte integrante della preparazione fisico- mentale dell’atleta.

Ciò nonostante è da tempo riconosciuto il grande potenziale offerto dalla psicofisiologia per la comprensione e il miglioramento della prestazione atletica essendo una delle tecniche più efficaci per facilitare l’apprendimento in termini di autoregolazione dell’attivazione.

Il BF, abbinato alle principali tecniche di Mental Training può essere utilizzato con successo al fine di ottenere un apprendimento sistematico del processo di psico regolazione e permette all’atleta affrontare attivamente le diverse situazioni esperite potendo considerarne le caratteristiche specifiche.

In Psicologia dello Sport perciò vi sono diverse aree di intervento nelle quali poter utilizzare il BF.

Innanzitutto dobbiamo considerare come un livello di attivazione scorretto conduce quasi sempre, direttamente o indirettamente, ad un calo della performance.

Con un training Biofeedback dei principali parametri fisiologici lo sportivo riesce a rintracciare tensioni indesiderate, scopre movimenti non economici e può influenzarli e modificarli nella direzione desiderata.

Inoltre attraverso sessioni a cadenza regolare di BF, si può ottenere un quadro del rapporto tra carico di lavoro atletico e recupero. Se il carico è eccessivo e il recupero non più sufficiente, si osservano modifiche nei parametri che indicano sovrallenamento. In questi casi si potranno osservare dei livelli alterati relativi per es. al polso a riposo aumentato, allo scarso assorbimento di ossigeno, alla tensione muscolare aumentata o a modifiche nella curva del respiro ed alla capacità di rilassamento generalmente ridotta.

In aggiunta a tali parametri che definiscono un quadro generale dell’atleta, vi sono aree ancor più specifiche di intervento come la riduzione dell’ansia percepita. Utilizzando la tecnica della “desensibilizzazione sistematica” l’atleta rivive determinate situazioni per lui ansiogene ridimensionate successivamente attraverso le tecniche di rilassamento e alla derivazione dei relativi parametri (polso, respirazione, valore di conduttanza cutanea, tensione muscolare). Conseguentemente la riduzione dello stato ansioso determina un aumento della performance agonistica.

Gli atleti, come chiunque altra persona, presentano un’area di funzionamento ottimale all’interno della quale il livello di attivazione permette la performance migliore. Molti atleti vivono questo stato psicologico in allenamento ma poi, in gara, non riescono a ritrovarlo a causa di una produzione supplementare di ormoni, che produce una “ipertensione” o iperattivazione al quale fa seguito spesso una performance non soddisfacente.

Le tecniche di rilassamento muscolare classiche del Mental Training comportano notevoli benefici a livello fisico e mentale. Attraverso di esse lo sportivo impara a rilassare i muscoli più velocemente e in modo migliore e a liberare la mente. L’utilizzo combinato con il BF determina un’ulteriore innalzamento del livello in termini di efficacia rendendo possibile un allenamento più intenso e gli effetti desiderati (miglioramento della performance) vengono raggiunti più rapidamente.

Il recupero da un infortunio rappresenta un aspetto a livello mentale spesso trascurato; una volta che l’atleta viene considerato in grado di riprendere allenamenti e successivamente le gare dal punto di vista fisico, spesso viene ributtato “nella mischia” senza tener in debito conto il suo vissuto.

Anche in questo caso è opportuno in primo luogo un training di rilassamento.

L’impiego di BF aiuta gli atleti a riacquistare il controllo della muscolatura, a dirigere in modo più corretto l’impiego della forza o a creare una tensione muscolare equilibrata in entrambe le parti del corpo sia a livello fisico che psicologico. Un infortunio grave, inoltre, può portare con sé strascichi a livello mentale che si tramutano in timore di incorrere nuovamente nello stesso trauma fisico o subirne di nuovi.   Attraverso il BF, si può agire sull’ansia e la paura generate da questi pensieri che contribuiscono a togliere serenità all’atleta e riducono le performance.

 

Target Panic, un fattore che va al di là del puro aspetto sportivo.

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Il fattore TP, o Target Panic (Panico da Bersaglio), rappresenta un aspetto piuttosto diffuso tra gli atleti di diverse discipline e si manifesta in maniera più o meno significativa a seconda della personalità e del vissuto dell’atleta stesso, ma anche in relazione all’attività sportiva praticata.

Nel tiro a segno, il TP rappresenta il manifestarsi di insicurezze e paure presenti nel vissuto dell’atleta in maniera più o meno conscia (ma spesso relegate nel profondo dell’inconscio) ed accolte dall’atleta stesso come una sua caratteristica personale con la quale dover convivere poiché apparentemente inattaccabile.

La realtà dei fatti è che il TP è quasi sempre uno specchio di un disagio collegato a qualcosa che va ben oltre la paura del bersaglio e spesso non ha nulla a che fare con il tiro in sé, ma è la manifestazione di disagi che, come detto, arrivano da ben più lontano.

In questi casi il lavoro attraverso tecniche di rilassamento e visualizzazione volti ad una maggiore consapevolezza corporea e predisposizione mentale rappresentano strumenti di sicura utilità e giovamento, ma non possono prescindere da un lavoro ben più profondo che, partendo da strade diverse e molto spesso lontane dalla disciplina sportiva in sé, vada a toccare il vissuto dell’atleta rispetto molteplici aspetti del suo quotidiano anche lontano dal poligono di tiro.

Nella mia esperienza professionale ho avuto a che fare con diversi casi di atleti molto preparati dal punto di vista tecnico e atletico, ma che manifestavano a livello competitivo un andamento altalenante pur dicendosi preparati in termini di self confidence ed allenamento mentale.

Il lavoro con questi atleti è passato necessariamente attraverso l’analisi di fattori che apparentemente non riguardavano la disciplina sportiva ma come costoro si approcciassero a diversi aspetti della loro vita dove si sentivano messi in gioco, così come nello sport.

Un calo drastico della prestazione ogni qualvolta l’atleta si accorgeva di inanellare una serie di “10” o di “mouche” consecutive fornendo una mini serie di “8” e “7” nei colpi successivi, rappresenta un caso che ha messo a dura prova uno dei suddetti atleti (che chiameremo F.) in un percorso di autoconsapevolezza che ha coinvolto il suo rapporto con la visione di se stesso come persona e sportivo meritevole di successo e prestazioni di alto livello.

Apparentemente può sembrare ovvio che l’obiettivo di un atleta sia il raggiungimento di massimi risultati, ma ciò che “spinge” dai substrati del nostro inconscio non sempre rema nella stessa direzione alimentando così l’influenza della “mente che zavorra” piuttosto che quella che sostiene l’atleta.

Conseguentemente, ogni qual volta F. metteva a segno una serie di 3 o 4 colpi con il massimo punteggio, era soggetto all’azione di uno schema di comportamento automatico che lo condizionava abbassando drasticamente la sua prestazione riportandolo a livelli che inconsciamente pensava di meritare e dove si sentiva quasi confortato e sicuro nonché meno esposto ad una realtà, quella dei massimi risultati, alla quale non sentiva di appartenere.

Il timore del bersaglio, la paura di vincere, vanno spesso di pari passo con una self confidence non del tutto consapevole e minata da una realtà profonda ed intima che va affrontata in maniera seria per la quale risulta auspicabile l’intervento di uno psicologo dello sport che possa individuare le reali cause dei problemi e che sia quindi in grado di indirizzare l’atleta verso il rimedio più adeguato.

 

La preparazione mentale nel Baseball

Paolino Ambrosino

Paolino Ambrosino

Il gioco di baseball richiede un atteggiamento mentale unico rispetto ad altri sport di squadra.

La velocità ed il tempo di reazione rappresentano un punto di riferimento fondamentale nelle dinamiche del gioco per cui l’abilità a rispondere fisicamente in un lasso di tempo molto breve coinvolge il giocatore da diversi punti di vista, a partire dalla prospettiva mentale.

Durante il gioco si verificano diversi momenti di “high and low performance” per non parlare durante l’intera stagione. Il giocatore perciò deve imparare a gestire gli strumenti mentali che gli permettano di far fronte ad ogni eventualità e situazione di gioco in modo da avere una maggiore costanza nel rendimento.

Un atleta mentalmente duro è un’atleta calmo, focalizzato sull’obiettivo e con un livello di self confidence ed autostima piuttosto alti.

Come battitore, l’atleta va sul piatto con sicurezza e decisione di dare il meglio nel gesto tecnico, non solo sperando di poterlo fare. Egli si trova in una condizione di apparente svantaggio dove deve affrontare non uno ma due avversari e, se vogliamo estendere il concetto, non una ma due menti (il catcher e il pitcher). Per tal motivo risulta molto importante l’approccio con il quale affronta la fase di battuta ed i messaggi che manifesta attraverso lo sguardo, il body language, la calma e la sicurezza.

Allo stesso modo i lanciatori forti mentalmente credono in ogni lancio che eseguono, o l’esterno attacca la palla e non lascia che la palla attacchi lui.

I giocatori che mancano di self confidence e di durezza mentale sono particolarmente esposti a significative pause nel rendimento, mentre coloro che possono contare su un alto livello di autostima e fiducia viceversa sanno (e non sperano) di ottenere i risultati in relazione al lavoro fatto.

Il giocatore perciò costruisce la propria forza mentale lavorando ed allenandosi con costanza sia fisicamente che tecnicamente ma anche e soprattutto mentalmente, imparando a conoscere la propria personale realtà come atleta ed individuo, acquisendo gli strumenti necessari ad affrontare ogni situazione della gara in maniera da accrescere la sicurezza in se stesso e nelle proprie capacità.

L’importanza della respirazione

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In un percorso di Mental Training, le tecniche di intervento hanno come presupposto una corretta respirazione da parte dell’atleta.
La respirazione, come sappiamo, gioca un ruolo fondamentale nell’equilibrio psico- fisico di ogni essere vivente. L’utilizzo di opportuni esercizi rappresenta uno strumento volto all’abbassamento ed al controllo della tensione nervosa latente, alla gestione delle emozioni percepite (e spesso non esperite o espresse) con un possibile conseguente scioglimento dei blocchi emozionali e favorisce l’ossigenazione cerebrale e muscolo- scheletrica influendo positivamente su quello che possiamo chiamare il flusso vitale della persona.
Spesso, nelle mie esperienze precedenti, sia a livello giovanile che con atleti in età adulta, mi sono trovato difronte a persone che non avevano una respirazione corretta perché tendevano a respirare soprattutto a livello toracico. Per tal motivo, implementavo nel mio lavoro opportune sedute almeno a cadenza settimanale volte all’utilizzo delle corrette tecniche di respirazione.
La respirazione toracica non permette una completa ossigenazione delle cellule, poiché l’aria inspirata raggiunge in minima parte la base dei polmoni, che è la parte più ampia, dove avviene lo scambio gassoso. I polmoni, infatti, mescolano l’aria che respiriamo con il sangue; in tal modo l’ossigeno (O2) viene trasportato a tutte le cellule ed elimina l’anidride carbonica (CO2).
La respirazione, pur essendo un atto automatico ed involontario, viene comunque coordinata da alcuni centri cerebrali (il bulbo, ponte e midollo allungato) che vengono stimolati dall’anidride carbonica ad inviare informazioni ai muscoli coinvolti nel processo respiratorio determinando la frequenza, la profondità ed il ritmo del respiro.
L’apporto di ossigeno perciò è fondamentale per bruciare le sostanze nutritive e produrre energia; una sua carenza determina anche bassi livelli di vitalità, di produttività e di energia mentale e fisica.
Per tal motivo è fondamentale correggere il proprio stile respiratorio in maniera consapevole, in modo da acquisire uno strumento efficace tale da favorire l’equilibrio mente/ corpo.
Anche in ambito sportivo sussiste tale correlazione tra stato emotivo/ mentale e respirazione; apprendendo tecniche appropriate, possiamo davvero imparare a gestire e ad eliminare i sentimenti negativi, e facilitare la liberazione di pensieri ed emozioni represse, trattandole in maniera più consapevole, responsabile e creativo.
Le tecniche per lo più utilizzate sono la Respirazione anti-stress e la Respirazione Diaframmatica. Entrambe hanno come finalità la gestione consapevole della propria respirazione, il rallentamento della stessa, l’ampliamento dell’ossigenazione a livello muscolo- scheletrico e sono propedeutiche alle fasi di rilassamento e visualizzazione le quali, a loro volta, sono alla base di molti degli interventi in un percorso di Mental training.

La gestione mentale dell’infortunio.

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Lo sportivo che incorre in un infortunio, specialmente se si tratta di periodi di convalescenza lunga o episodi ripetuti entro una parentesi temporale breve, vive una situazione personale che, se sottovalutata, può rappresentare un evento destabilizzante per l’equilibrio psico- emotivo dell’uomo atleta.
Diventa perciò primario considerare l’approccio all’evento negativo, poiché un cattivo adattamento all’infortunio può rappresentare l’origine della comparsa di vissuti controproducenti al fine di un pieno e sano recupero sia a livello fisico che psicologico.
Quando un’atleta si infortuna, l’aspetto che principalmente si considera è quello relativo al tempo di recupero mentre quello mentale viene spesso messo in disparte, con il rischio di incorrere in sensazioni di rabbia ed impotenza, sbalzi di umore, dubbi sul proprio ritorno alla piena efficienza, pensieri irrazionali, stati depressivi e, nei casi più gravi, a sindromi di dolore cronico e “grief reaction”, compromettendo l’equilibrio della persona anche nella vita quotidiana.
L’impatto psicologico generalmente coinvolge 4 aree del vissuto dell’atleta.
L’area del benessere fisico che si riferisce in particolare al dolore, alle limitazioni nei movimenti ed alla fatica durante la riabilitazione; l’area del benessere emozionale, legata al trauma psicologico dovuto all’infortunio (sensazioni di perdita, angoscia, minaccia al livello della performance futura); l’area del benessere sociale in relazione al ruolo che l’atleta ricopre nella squadra e nell’opinione dello staff tecnico; l’area che riguarda il “se” e la considerazione della propria stima, efficacia e della self confidence.
Per questo motivo, l’infortunio fisico non rappresenta l’unico aspetto da affrontare nel periodo di convalescenza di un atleta, ma è necessario tener in debita considerazione come l’atleta stesso approccerà un periodo durante il quale potrebbe perdere fiducia ed identità a causa dell’inattività.
Chiaramente questo è un quadro che non riguarda tutti gli atleti, molto dipende dalla personalità, dalle esperienze passate e dall’ambiente sportivo (e non) in cui vivono, ma vi sono casi in cui innanzitutto lo sportivo infortunato va supportato nel gestire il periodo in cui è fermo e svolge la riabilitazione.
Mantenere l’equilibrio personale, accettare l’evento negativo, le emozioni e le sensazioni che ne derivano, è un primo importante passo da fare per intraprendere un percorso di allenamento mentale che si affianchi a quello della terapia fisica riabilitativa.
Un buon programma di preparazione mentale può portare a diversi benefici aumentando l’autostima, potenziando la capacità di autoregolazione, migliorando le capacità del controllo del dolore e diminuendo la paura del ripetersi dell’infortunio.
L’utilizzo delle tecniche di Mental Training a partire da una valutazione psicodiagnostica adeguata e focalizzata sull’individuo infortunato, è in grado di supportare l’atleta e metterlo nelle condizioni di conoscere e capire meglio il proprio dolore, utilizzare le informazioni che il dolore fornisce, elaborare strategie per la gestione dell’infortunio, al fine di ridurre le sensazioni di paura e negazione ed aumentare la consapevolezza e la sensazione di controllo, favorendo l’equilibrio interiore e un approccio positivo al recupero fisico.

L’allenatore e l’attività giovanile

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La figura dell’allenatore/ educatore nell’ambito dello sport giovanile ha una responsabilità che va ben oltre alla gestione sportiva degli atleti, ma inevitabilmente si estende anche ad aspetti quali la crescita psicologica, cognitiva, comportamentale e della personalità di bambini o ragazzi che trovano nel rapporto con il coach un tipo di relazione che, in molti casi, diventa di fiducia sfociando anche nella sfera affettiva creando legami molto significativi.
Proprio per tal motivo l’allenatore dovrebbe essere consapevole del ruolo che gioca a seconda dell’età dei ragazzi con cui si rapporta, e dovrebbe altresì avere una visione almeno generale delle diversità a livello caratteriale, emozionale e comportamentale dei ragazzi che allena, ben tenendo presente che ha nelle mani una buona parte della responsabilità della crescita dei suoi allievi non solo a livello tecnico- sportivo, ma anche e soprattutto cognitivo- comportamentale.
In quest’ottica l’allenatore dovrebbe essere molto motivato nel lavorare con i ragazzi e sentire una particolare vocazione per il lavoro in questo campo.
L’atteggiamento perciò deve essere caratterizzato da propositività e apertura, anche nel mettersi in gioco e, perché no, in discussione. Come detto, egli non ha solo il compito di insegnare la disciplina sportiva, ma dovrebbe infondere sicurezza, coraggio, passione pur mantenendo una linea autorevole e restando un punto di riferimento positivo ma deciso.
Un aspetto importante è rappresentato dalla partecipazione all’allenamento in maniera attiva in modo da poter avere un punto di vista diretto comprendendo come e quando intervenire per aiutare e sostenere i suoi allievi. Nel caso dell’allenatore delle categorie dei più piccoli, la partecipazione attiva si intende proprio nel gioco per quanto possibile, aiutando i ragazzini e ponendosi in prima persona come modello nell’illustrare eventuali movimenti o gesti che si vogliono insegnare.
L’approccio educativo è altresì caratterizzato dal principio di crescita sana dei ragazzi di qualsiasi categoria, e per tal motivo l’allenatore deve essere preparato ed aggiornato, accogliente con tutti senza fare selezioni o preferenze tra quelli più dotati e quelli che fanno più fatica, ma lavorando su tutti perché non votato alla necessità del risultato personale, ma al percorso da far svolgere ai ragazzi.
La capacità e la disponibilità di mettersi in gioco da parte di un allenatore risulta perciò fondamentale anche se questi può contare su una lunga esperienza nel suo campo. Da una parte l’allenatore può essere convinto di gestire i ragazzi secondo alcune metodologie e comportamenti a livello ideale che sul campo poi non riesce a tradurre in maniera adeguata oppure non venir recepito dalla squadra come lui vorrebbe. D’altra parte deve essere tenuto in considerazione che le generazioni dei giovani cambiano nel tempo ed inevitabilmente vanno riviste le basi sulle quali fondare un rapporto allenatore- giocatore/ allievo.
In quest’ottica ho avuto modo di constatare come l’utilizzo di un questionario sul comportamento dell’allenatore risulti molto significativo anche grazie alla sua semplicità ed immediatezza. Il questionario, somministrato agli atleti e, ovviamente, all’allenatore, descrive alcuni atteggiamenti particolari che un coach può esprimere sia a livello di gestione sportiva e relazionale del gruppo, sia a livello tecnico.
Ciò che risulta interessante e particolarmente utile ai fini di un confronto propositivo a livello di spogliatoio, è l’analisi tra come l’allenatore crede di comportarsi nella sua gestione e come i ragazzi vivono la relazione e ciò che invece si auspicherebbero di ottenere da essa.
Il ruolo dell’allenatore rappresenta perciò una realtà piena di responsabilità e la psicologia sportiva in ambito giovanile può garantirgli un supporto importante fornendogli gli strumenti formativi in modo da costruire i metodi di intervento che gli sono più consoni.
Parlare di fattori psicologici come stress o ansia senza sapere quali meccanismi si mettono in moto, cosa si evita e cosa si ottiene, dove indagare o cambiare, significa non andare oltre il buon senso comune ed utilizzare quelle qualità “da psicologo” che ognuno pensa di avere.

Psicologia del benessere

Lo psicologo sportivo si serve di tecniche e strumenti che forniscono all’atleta, professionista ed amatoriale, la capacità di gestire in modo produttivo le proprie abilità nel periodo pre- gara, durante la stessa e nella fase successiva alla competizione.
Ma le stesse aree di intervento sulle quali si lavora con lo sportivo, hanno un valore ed un’influenza effettiva anche sulla vita di tutti i giorni.
La gestione dello stress in vista di un esame, lo sviluppo della capacità di parlare in pubblico, i riflessi sul piano fisico di un blocco a livello emozionale o semplicemente la necessità di trovare un modo per entrare in contatto con il proprio corpo attraverso fasi di rilassamento e consapevolezza corporea, sono alcuni aspetti di come lo psicologo sportivo può intervenire in maniera professionale ed efficace su aspetti non prettamente sportivi, ma legati comunque all’espressione della propria personalità.
Questo approccio, che si occupa perciò della salute dell’individuo attraverso la valorizzazione delle proprie risorse, trova il suo sviluppo non solo a livello sportivo, ma anche aziendale, scolastico e, direi, quotidiano utilizzando tecniche semplici e concrete che sfruttano le capacità e le abilità di cambiamento del cervello.
Lo psicologo sportivo che si occupa di benessere, interviene su questioni disfunzionali che minano la salute dell’individuo, favorendo un adeguato stile di vita e la capacità di gestione dei propri pensieri necessari per raggiungere e mantenere uno stato di equilibrio psicofisico attraverso serie di training anti-stress, dell’attenzione e della motivazione che favoriscano la persona in ambito lavorativo e famigliare così come sostiene l’atleta in ambito sportivo.
Va sottolineato che, così come in ambito sportivo, l’intervento non è di tipo clinico o psicoterapeutico, e non si interviene sul passato della persona se non in maniera generale o inerente ad una questione specifica ma fortemente legata al quotidiano.
Nello specifico, le tecniche di intervento individuale proposte sono fondamentalmente quelle utilizzate nell’ambito della Psicologia dello sport come il Rilassamento e la Visualizzazione, le strategie di Training motivazionale orientate agli aspetti della vita quotidiana e riguardanti, come detto, l’attività lavorativa o situazioni ansiogene come colloqui di lavoro, esami scolastici o universitari che necessitano di una corretta gestione delle emozioni ed una mentalità positiva.