La gestione mentale dell’infortunio.

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Lo sportivo che incorre in un infortunio, specialmente se si tratta di periodi di convalescenza lunga o episodi ripetuti entro una parentesi temporale breve, vive una situazione personale che, se sottovalutata, può rappresentare un evento destabilizzante per l’equilibrio psico- emotivo dell’uomo atleta.
Diventa perciò primario considerare l’approccio all’evento negativo, poiché un cattivo adattamento all’infortunio può rappresentare l’origine della comparsa di vissuti controproducenti al fine di un pieno e sano recupero sia a livello fisico che psicologico.
Quando un’atleta si infortuna, l’aspetto che principalmente si considera è quello relativo al tempo di recupero mentre quello mentale viene spesso messo in disparte, con il rischio di incorrere in sensazioni di rabbia ed impotenza, sbalzi di umore, dubbi sul proprio ritorno alla piena efficienza, pensieri irrazionali, stati depressivi e, nei casi più gravi, a sindromi di dolore cronico e “grief reaction”, compromettendo l’equilibrio della persona anche nella vita quotidiana.
L’impatto psicologico generalmente coinvolge 4 aree del vissuto dell’atleta.
L’area del benessere fisico che si riferisce in particolare al dolore, alle limitazioni nei movimenti ed alla fatica durante la riabilitazione; l’area del benessere emozionale, legata al trauma psicologico dovuto all’infortunio (sensazioni di perdita, angoscia, minaccia al livello della performance futura); l’area del benessere sociale in relazione al ruolo che l’atleta ricopre nella squadra e nell’opinione dello staff tecnico; l’area che riguarda il “se” e la considerazione della propria stima, efficacia e della self confidence.
Per questo motivo, l’infortunio fisico non rappresenta l’unico aspetto da affrontare nel periodo di convalescenza di un atleta, ma è necessario tener in debita considerazione come l’atleta stesso approccerà un periodo durante il quale potrebbe perdere fiducia ed identità a causa dell’inattività.
Chiaramente questo è un quadro che non riguarda tutti gli atleti, molto dipende dalla personalità, dalle esperienze passate e dall’ambiente sportivo (e non) in cui vivono, ma vi sono casi in cui innanzitutto lo sportivo infortunato va supportato nel gestire il periodo in cui è fermo e svolge la riabilitazione.
Mantenere l’equilibrio personale, accettare l’evento negativo, le emozioni e le sensazioni che ne derivano, è un primo importante passo da fare per intraprendere un percorso di allenamento mentale che si affianchi a quello della terapia fisica riabilitativa.
Un buon programma di preparazione mentale può portare a diversi benefici aumentando l’autostima, potenziando la capacità di autoregolazione, migliorando le capacità del controllo del dolore e diminuendo la paura del ripetersi dell’infortunio.
L’utilizzo delle tecniche di Mental Training a partire da una valutazione psicodiagnostica adeguata e focalizzata sull’individuo infortunato, è in grado di supportare l’atleta e metterlo nelle condizioni di conoscere e capire meglio il proprio dolore, utilizzare le informazioni che il dolore fornisce, elaborare strategie per la gestione dell’infortunio, al fine di ridurre le sensazioni di paura e negazione ed aumentare la consapevolezza e la sensazione di controllo, favorendo l’equilibrio interiore e un approccio positivo al recupero fisico.
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L’allenatore e l’attività giovanile

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La figura dell’allenatore/ educatore nell’ambito dello sport giovanile ha una responsabilità che va ben oltre alla gestione sportiva degli atleti, ma inevitabilmente si estende anche ad aspetti quali la crescita psicologica, cognitiva, comportamentale e della personalità di bambini o ragazzi che trovano nel rapporto con il coach un tipo di relazione che, in molti casi, diventa di fiducia sfociando anche nella sfera affettiva creando legami molto significativi.
Proprio per tal motivo l’allenatore dovrebbe essere consapevole del ruolo che gioca a seconda dell’età dei ragazzi con cui si rapporta, e dovrebbe altresì avere una visione almeno generale delle diversità a livello caratteriale, emozionale e comportamentale dei ragazzi che allena, ben tenendo presente che ha nelle mani una buona parte della responsabilità della crescita dei suoi allievi non solo a livello tecnico- sportivo, ma anche e soprattutto cognitivo- comportamentale.
In quest’ottica l’allenatore dovrebbe essere molto motivato nel lavorare con i ragazzi e sentire una particolare vocazione per il lavoro in questo campo.
L’atteggiamento perciò deve essere caratterizzato da propositività e apertura, anche nel mettersi in gioco e, perché no, in discussione. Come detto, egli non ha solo il compito di insegnare la disciplina sportiva, ma dovrebbe infondere sicurezza, coraggio, passione pur mantenendo una linea autorevole e restando un punto di riferimento positivo ma deciso.
Un aspetto importante è rappresentato dalla partecipazione all’allenamento in maniera attiva in modo da poter avere un punto di vista diretto comprendendo come e quando intervenire per aiutare e sostenere i suoi allievi. Nel caso dell’allenatore delle categorie dei più piccoli, la partecipazione attiva si intende proprio nel gioco per quanto possibile, aiutando i ragazzini e ponendosi in prima persona come modello nell’illustrare eventuali movimenti o gesti che si vogliono insegnare.
L’approccio educativo è altresì caratterizzato dal principio di crescita sana dei ragazzi di qualsiasi categoria, e per tal motivo l’allenatore deve essere preparato ed aggiornato, accogliente con tutti senza fare selezioni o preferenze tra quelli più dotati e quelli che fanno più fatica, ma lavorando su tutti perché non votato alla necessità del risultato personale, ma al percorso da far svolgere ai ragazzi.
La capacità e la disponibilità di mettersi in gioco da parte di un allenatore risulta perciò fondamentale anche se questi può contare su una lunga esperienza nel suo campo. Da una parte l’allenatore può essere convinto di gestire i ragazzi secondo alcune metodologie e comportamenti a livello ideale che sul campo poi non riesce a tradurre in maniera adeguata oppure non venir recepito dalla squadra come lui vorrebbe. D’altra parte deve essere tenuto in considerazione che le generazioni dei giovani cambiano nel tempo ed inevitabilmente vanno riviste le basi sulle quali fondare un rapporto allenatore- giocatore/ allievo.
In quest’ottica ho avuto modo di constatare come l’utilizzo di un questionario sul comportamento dell’allenatore risulti molto significativo anche grazie alla sua semplicità ed immediatezza. Il questionario, somministrato agli atleti e, ovviamente, all’allenatore, descrive alcuni atteggiamenti particolari che un coach può esprimere sia a livello di gestione sportiva e relazionale del gruppo, sia a livello tecnico.
Ciò che risulta interessante e particolarmente utile ai fini di un confronto propositivo a livello di spogliatoio, è l’analisi tra come l’allenatore crede di comportarsi nella sua gestione e come i ragazzi vivono la relazione e ciò che invece si auspicherebbero di ottenere da essa.
Il ruolo dell’allenatore rappresenta perciò una realtà piena di responsabilità e la psicologia sportiva in ambito giovanile può garantirgli un supporto importante fornendogli gli strumenti formativi in modo da costruire i metodi di intervento che gli sono più consoni.
Parlare di fattori psicologici come stress o ansia senza sapere quali meccanismi si mettono in moto, cosa si evita e cosa si ottiene, dove indagare o cambiare, significa non andare oltre il buon senso comune ed utilizzare quelle qualità “da psicologo” che ognuno pensa di avere.

Gervinho, quando le motivazioni fanno la differenza.

 

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Dopo la settima vittoria consecutiva, la Roma dimostra di poter fare sul serio nel corso di questo campionato.
I motivi di questa partenza caratterizzata da risultati schiaccianti ed un gioco totale, trovano giustificazione in un allenatore che ha portato una nuova mentalità nel gruppo, unita ad una forma fisica tale che, attualmente, garantisce una marcia in più alla squadra giallorossa.
Ma vi è un fattore da sottolineare ed è la continuità e l’essere incisivo di un giocatore come Gervinho, scaricato dall’Arsenal come un peso ingombrante, ed arrivato a Roma accompagnato da molti dubbi.
Invece, il giocatore ivoriano sta mettendo in mostra tutte le sue potenzialità: la corsa, la forza fisica, le qualità tecniche e l’intelligenza tattica che in altre piazze aveva mostrato solo a momenti.
Si potrebbe attribuire questa fase, come detto sopra, alla smagliante forma fisica della squadra tutta, ma pur ammettendo tale possibilità, se il giocatore non avesse la determinazione, la voglia, la convinzione e la sicurezza nei propri mezzi che attualmente dimostra, finirebbe per “correre a vuoto” senza incidere positivamente sul gioco come invece sta facendo.
Senza dubbio il merito va attribuito a chi ha voluto portare in giallorosso Gervinho, e cioè l’allenatore Garcia, che lo ha saputo motivare al meglio, conoscendo le sue caratteristiche ed abilità e sapendo bene su quali aspetti far leva per ottenere dall’ivoriano un atteggiamento sul campo propositivo e produttivo.
D’altra parte Gervinho, sa bene di avere al suo fianco un uomo che crede fortemente in lui e perciò si sente sicuro e, probabilmente, libero dalla necessità e dalla pressione di dover dimostrare di essere all’altezza.
Al tempo stesso però credo che la sua crescita come sportivo e uomo passi necessariamente attraverso un lavoro sulla consapevolezza dei propri mezzi indipendentemente dall’allenatore che lo gestisce, al fine di non restare intrappolato nelle insicurezze del dover dimostrare il proprio valore a chi, a differenza di Garcia, non lo considera un punto fermo della squadra.

Juventus: è un problema di approccio?

 

Dopo l’incontro di ieri contro il Galatasaray, sicuramente aumenteranno le critiche alla formazione bianconera circa il rendimento che quest’anno appare molto al di sotto di quello fornito negli ultimi due anni.
Si parla di mancanza, o diminuzione della “fame” da parte del team tutto, o di insicurezze che si starebbero infiltrando nella squadra a partire da una certa insoddisfazione di base e nervosismo, più o meno latente, che Conte manifesterebbe già da questa estate.
Va da sé che i risultati parlano da soli, e le prestazioni ancora di più.
Pur considerando l’influenza della condizione atletica che sicuramente non è smagliante, è evidente come la componente mentale nella Juventus di questa prima parte di stagione sia determinante nello svolgimento della gara.
Episodi in cui si possono notare cali di concentrazione, disattenzioni, ingenuità non certamente proprie di campioni a livello internazionale, si sono susseguiti di partita in partita contribuendo a minare la sicurezza di una squadra che aveva, ed avrebbe ancora, nell’aggressività la propria arma principale.

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In europa questa crepa nell’impianto bianconero si manifesta con ancora più forza poiché le avversarie, ancorché  di livello tecnico inferiore, spesso non sono così permissive come le squadre italiane, e fanno pagare ad alto prezzo sia le ingenuità che un atteggiamento non sufficientemente aggressivo e focalizzato.
Proprio nella partita con il Galatasaray sono emerse con forza le due facce che la Juventus è in grado di manifestare in questa stagione. Da una parte, una squadra dal basso profilo, disattenta, poco aggressiva e bloccata che ha finito per subire il gioco avversario, o comunque non ha imposto il proprio, incassando il goal, non certamente a caso, per una evidente ingenuità e disattenzione difensiva. Dall’altra venti minuti in cui ha messo alle corde l’avversario con un atteggiamento senza dubbio propositivo e focalizzato, ma che non può essere figlio della necessità e della disperazione, perchè rischia di essere fine a se stesso o di breve durata, come in fine si è dimostrato, quando un’ ulteriore ingenuità di squadra ha permesso il pareggio del definitivo 2-2.
Lasciando stare motivazioni tattiche sulla difesa che era passata a 2 e che rappresenterebbe una spiegazione del perché l’avversario si è trovato solo davanti a Buffon in occasione del pareggio, si deve sottolineare come in quel momento questa Juventus ha perso di vista l’obiettivo perdendo la concentrazione in maniera troppo evidente, e non è secondario notare come anche Conte, un allenatore che fino lo scorso anno avrebbe catechizzato i suoi invece di esultare, si è quasi perso il pareggio perché esultava con i tifosi.
La squadra, lo staff  tecnico e la società tutta non possono non vedere e considerare questi episodi che non sono situazioni isolate e casuali, ma rappresentano i tasselli di un mosaico che rischia di minare le sicurezze e l’impianto strutturale di un team di primo livello formato da atleti di primo livello che ciò nonostante non possono prescindere da una salda e adeguata tenuta mentale.

 

Mario Balotelli. Un bad boy? Non credo proprio.

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Per quanto si possa osservare il comportamento di Mario Balotelli in questi anni di carriera da un punto di vista professionale, è chiaro che nella maggior parte dei casi in cui si è trovato in situazioni diciamo “discutibili”, l’atteggiamento e le reazioni che assumeva non erano giustificabili.
L’ultimo episodio che ha mosso l’opinione pubblica ed ha portato la giustizia sportiva a conferirgli tre giornate di squalifica, rappresenta senza dubbio uno dei suddetti comportamenti.
Ho apprezzato molto sia la società AC Milan, sia l’allenatore Allegri, per come si sono posti di fronte a questa ennesima intemperanza evitando di fare ricorso per la squalifica, proprio per il messaggio che sottende a tale comportamento.
Balotelli infatti, non solo ha contribuito a mettere se stesso in cattiva luce, ma ha messo anche i compagni e la società in grave difficoltà, per non parlare della mancanza di rispetto verso il direttore di gara.
Mario Balotelli, a questo punto, però, deve per forza decidere di crescere, lavorare sul proprio comportamento, sulle proprie reazioni allo stress ed a ciò che lui ritiene un’ingiustizia subita. non solo ha contribuito a mettere se stesso in cattiva luce, ma ha messo anche i compagni e la società in grave difficoltà, per non parlare della mancanza di rispetto verso il direttore di gara.
Ma detto questo, resto dell’idea che non si tratta affatto di un “bad boy”!
Balotelli ha probabilmente bisogno di un punto di riferimento professionale che lo supporti nel lavoro su se stesso, sulle proprie reazioni, sulla gestione dello stress, ma soprattutto deve rendersi conto di averne bisogno, deve cioè voler lavorare su se stesso, su quello che sembra sempre più il suo tallone d’achille che può rappresentare il principale ostacolo ad una sua totale affermazione come campione internazionale.
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A mente fredda, ritengo che il ragazzo conosca molto bene l’opportunità o meno di determinati comportamenti ed il fatto che, più o meno volontariamente, si sia scusato, ne è una prova. Di più, direi che anche la famosa T-shirt che recitava “Why always me?”, in un certo senso rappresenti, seppur con un carattere un pò vittimistico, il modo in cui Balotelli esperisce determinate situazioni che lo coinvolgono in prima persona. 
Per tale motivo il ragazzo, anzi l’uomo Balotelli, è ora che decida di prendere coscienza di ciò che lo porta a scadere in determinati comportamenti e reazioni di fronte a situazioni che, per quanto gli siano avverse, andrebbero affrontate con una testa, una consapevolezza ed una maturità ben diverse, così da non poter più essere etichettato, a torto, un “bad boy”.