Potrebbe sembrare strano che una persona che svolge un’attività artistica a livello professionale o amatoriale possa “soffrire” di ansia da palcoscenico, eppure che l’artista in questione sia un musicista, un attore o che debba danzare, l’aspetto emozionale-psicologico si riflette direttamente su quello comportamentale rischiando di invalidare in maniera più o meno significativa la performance artistica. Le conseguenze di un vissuto ansioso una volta saliti sul palco si manifestano a livello fisico, emotivo e cognitivo e vanno direttamente in conflitto con la voglia ed il desiderio dell’artista di mettersi in gioco e trasmettere al pubblico il proprio talento, la propria personalità e le proprie emozioni attraverso il canale artistico che gli è più consono. L’espressività fisica, la mimica facciale, la capacità di gestire le proprie abilità vocali o la fluidità dei movimenti rappresentano diversi aspetti artistici che possono essere influenzati negativamente. L’ansia da palcoscenico ha caratteristiche simili all’ansia da prestazione o sociale. In entrambi i casi si possono rilevare timori legati al giudizio altrui riguardo la propria performance. Differentemente chi sale su un palco ha, come detto, la voglia di mettersi in gioco ponendosi volontariamente ad un pubblico giudizio accettando le conseguenze positive o negative della performance offerta. L’ansia che l’artista vive è in parte dovuta ad un tratto caratteriale ed in parte dovuta allo stato psicologico evocato dalla situazione che sta vivendo e si manifesta su diversi livelli: emotivo, fisico, cognitivo e comportamentale. Tale combinazione può creare un quadro disfunzionale per l’artista e per la prestazione in quanto rischia di perdere il senso del “qui ed ora” necessario per rimanere “centrato” e focalizzato. Se l’ansia sorge relativamente ad una performance futura e/o imminente, spesso essa è rafforzata da uno o più eventi spiacevoli avvenuti nel passato. In tal modo si crea un quadro situazionale per il quale chi viva l’ansia da palco proietta un possibile fallimento futuro sulla base di uno o più eventi passati. Così come avviene nello sport, la persona si trova a metà tra i ricordi del passato e le proiezioni negative del futuro venendo meno, di fatto, il loro essere nel presente, nel “qui ed ora” dove è più importante che si trovino. Questa situazione avrà molto probabilmente una ripercussione negativa sulla prestazione con il rischio di arrivare all’evitamento dell’evento ansiogeno. Il trattamento dell’ansia da palco prevede un lavoro di sostegno e rinforzo delle abilità abilità cognitive della persona. Si può lavorare sul pensiero, sull’aspetto emotivo e sulla capacità di modulazione dello stesso, sul senso di autoefficacia e, di consegienza, di autostima. In molte occasioni la chiave di volta risiedeva in un aspetto della vita dell’artista che nemmeno lui o lei immaginava ma che, una volta trattati gli aspetti più in superficie, emergevano in maniera prepotente e che spesso non erano direttamente legati alla disciplina artistica praticata.
L’artista perciò ha la possibilità di affrontare diverse problematiche attraverso alcuni interventi risultati particolarmente efficaci:
–Mental Training e Tecniche di Rilassamento e Visualizzazione.
Queste forme di intervento risultano particolarmente efficaci, soprattutto se combinate tra di loro in relazione alle necessità della persona e del suo vissuto. Le conseguenze positive riguardano la Comprensione di sé, Capacità di autoregolazione e stabilizzazione emotiva dell’individuo, il miglioramento della prestazione o della performance dell’artista.
Il fattore TP, o Target Panic (Panico da Bersaglio), rappresenta un aspetto piuttosto diffuso tra gli atleti di diverse discipline e si manifesta in maniera più o meno significativa a seconda della personalità e del vissuto dell’atleta stesso, ma anche in relazione all’attività sportiva praticata.
Nel tiro a segno, il TP rappresenta il manifestarsi di insicurezze e paure presenti nel vissuto dell’atleta in maniera più o meno conscia (ma spesso relegate nel profondo dell’inconscio) ed accolte dall’atleta stesso come una sua caratteristica personale con la quale dover convivere poiché apparentemente inattaccabile.
La realtà dei fatti è che il TP è quasi sempre uno specchio di un disagio collegato a qualcosa che va ben oltre la paura del bersaglio e spesso non ha nulla a che fare con il tiro in sé, ma è la manifestazione di disagi che, come detto, arrivano da ben più lontano.
In questi casi il lavoro attraverso tecniche di rilassamento e visualizzazione volti ad una maggiore consapevolezza corporea e predisposizione mentale rappresentano strumenti di sicura utilità e giovamento, ma non possono prescindere da un lavoro ben più profondo che, partendo da strade diverse e molto spesso lontane dalla disciplina sportiva in sé, vada a toccare il vissuto dell’atleta rispetto molteplici aspetti del suo quotidiano anche lontano dal poligono di tiro.
Nella mia esperienza professionale ho avuto a che fare con diversi casi di atleti molto preparati dal punto di vista tecnico e atletico, ma che manifestavano a livello competitivo un andamento altalenante pur dicendosi preparati in termini di self confidence ed allenamento mentale.
Il lavoro con questi atleti è passato necessariamente attraverso l’analisi di fattori che apparentemente non riguardavano la disciplina sportiva ma come costoro si approcciassero a diversi aspetti della loro vita dove si sentivano messi in gioco, così come nello sport.
Un calo drastico della prestazione ogni qualvolta l’atleta si accorgeva di inanellare una serie di “10” o di “mouche” consecutive fornendo una mini serie di “8” e “7” nei colpi successivi, rappresenta un caso che ha messo a dura prova uno dei suddetti atleti (che chiameremo F.) in un percorso di autoconsapevolezza che ha coinvolto il suo rapporto con la visione di se stesso come persona e sportivo meritevole di successo e prestazioni di alto livello.
Apparentemente può sembrare ovvio che l’obiettivo di un atleta sia il raggiungimento di massimi risultati, ma ciò che “spinge” dai substrati del nostro inconscio non sempre rema nella stessa direzione alimentando così l’influenza della “mente che zavorra” piuttosto che quella che sostiene l’atleta.
Conseguentemente, ogni qual volta F. metteva a segno una serie di 3 o 4 colpi con il massimo punteggio, era soggetto all’azione di uno schema di comportamento automatico che lo condizionava abbassando drasticamente la sua prestazione riportandolo a livelli che inconsciamente pensava di meritare e dove si sentiva quasi confortato e sicuro nonché meno esposto ad una realtà, quella dei massimi risultati, alla quale non sentiva di appartenere.
Il timore del bersaglio, la paura di vincere, vanno spesso di pari passo con una self confidence non del tutto consapevole e minata da una realtà profonda ed intima che va affrontata in maniera seria per la quale risulta auspicabile l’intervento di uno psicologo dello sport che possa individuare le reali cause dei problemi e che sia quindi in grado di indirizzare l’atleta verso il rimedio più adeguato.
Lo sportivo che incorre in un infortunio, specialmente se si tratta di periodi di convalescenza lunga o episodi ripetuti entro una parentesi temporale breve, vive una situazione personale che, se sottovalutata, può rappresentare un evento destabilizzante per l’equilibrio psico- emotivo dell’uomo atleta.
Diventa perciò primario considerare l’approccio all’evento negativo, poiché un cattivo adattamento all’infortunio può rappresentare l’origine della comparsa di vissuti controproducenti al fine di un pieno e sano recupero sia a livello fisico che psicologico.
Quando un’atleta si infortuna, l’aspetto che principalmente si considera è quello relativo al tempo di recupero mentre quello mentale viene spesso messo in disparte, con il rischio di incorrere in sensazioni di rabbia ed impotenza, sbalzi di umore, dubbi sul proprio ritorno alla piena efficienza, pensieri irrazionali, stati depressivi e, nei casi più gravi, a sindromi di dolore cronico e “grief reaction”, compromettendo l’equilibrio della persona anche nella vita quotidiana.
L’impatto psicologico generalmente coinvolge 4 aree del vissuto dell’atleta.
L’area del benessere fisico che si riferisce in particolare al dolore, alle limitazioni nei movimenti ed alla fatica durante la riabilitazione; l’area del benessere emozionale, legata al trauma psicologico dovuto all’infortunio (sensazioni di perdita, angoscia, minaccia al livello della performance futura); l’area del benessere sociale in relazione al ruolo che l’atleta ricopre nella squadra e nell’opinione dello staff tecnico; l’area che riguarda il “se” e la considerazione della propria stima, efficacia e della self confidence.
Per questo motivo, l’infortunio fisico non rappresenta l’unico aspetto da affrontare nel periodo di convalescenza di un atleta, ma è necessario tener in debita considerazione come l’atleta stesso approccerà un periodo durante il quale potrebbe perdere fiducia ed identità a causa dell’inattività.
Chiaramente questo è un quadro che non riguarda tutti gli atleti, molto dipende dalla personalità, dalle esperienze passate e dall’ambiente sportivo (e non) in cui vivono, ma vi sono casi in cui innanzitutto lo sportivo infortunato va supportato nel gestire il periodo in cui è fermo e svolge la riabilitazione.
Mantenere l’equilibrio personale, accettare l’evento negativo, le emozioni e le sensazioni che ne derivano, è un primo importante passo da fare per intraprendere un percorso di allenamento mentale che si affianchi a quello della terapia fisica riabilitativa.
Un buon programma di preparazione mentale può portare a diversi benefici aumentando l’autostima, potenziando la capacità di autoregolazione, migliorando le capacità del controllo del dolore e diminuendo la paura del ripetersi dell’infortunio.
L’utilizzo delle tecniche di Mental Training a partire da una valutazione psicodiagnostica adeguata e focalizzata sull’individuo infortunato, è in grado di supportare l’atleta e metterlo nelle condizioni di conoscere e capire meglio il proprio dolore, utilizzare le informazioni che il dolore fornisce, elaborare strategie per la gestione dell’infortunio, al fine di ridurre le sensazioni di paura e negazione ed aumentare la consapevolezza e la sensazione di controllo, favorendo l’equilibrio interiore e un approccio positivo al recupero fisico.
La figura dell’allenatore/ educatore nell’ambito dello sport giovanile ha una responsabilità che va ben oltre alla gestione sportiva degli atleti, ma inevitabilmente si estende anche ad aspetti quali la crescita psicologica, cognitiva, comportamentale e della personalità di bambini o ragazzi che trovano nel rapporto con il coach un tipo di relazione che, in molti casi, diventa di fiducia sfociando anche nella sfera affettiva creando legami molto significativi.
Proprio per tal motivo l’allenatore dovrebbe essere consapevole del ruolo che gioca a seconda dell’età dei ragazzi con cui si rapporta, e dovrebbe altresì avere una visione almeno generale delle diversità a livello caratteriale, emozionale e comportamentale dei ragazzi che allena, ben tenendo presente che ha nelle mani una buona parte della responsabilità della crescita dei suoi allievi non solo a livello tecnico- sportivo, ma anche e soprattutto cognitivo- comportamentale.
In quest’ottica l’allenatore dovrebbe essere molto motivato nel lavorare con i ragazzi e sentire una particolare vocazione per il lavoro in questo campo.
L’atteggiamento perciò deve essere caratterizzato da propositività e apertura, anche nel mettersi in gioco e, perché no, in discussione. Come detto, egli non ha solo il compito di insegnare la disciplina sportiva, ma dovrebbe infondere sicurezza, coraggio, passione pur mantenendo una linea autorevole e restando un punto di riferimento positivo ma deciso.
Un aspetto importante è rappresentato dalla partecipazione all’allenamento in maniera attiva in modo da poter avere un punto di vista diretto comprendendo come e quando intervenire per aiutare e sostenere i suoi allievi. Nel caso dell’allenatore delle categorie dei più piccoli, la partecipazione attiva si intende proprio nel gioco per quanto possibile, aiutando i ragazzini e ponendosi in prima persona come modello nell’illustrare eventuali movimenti o gesti che si vogliono insegnare.
L’approccio educativo è altresì caratterizzato dal principio di crescita sana dei ragazzi di qualsiasi categoria, e per tal motivo l’allenatore deve essere preparato ed aggiornato, accogliente con tutti senza fare selezioni o preferenze tra quelli più dotati e quelli che fanno più fatica, ma lavorando su tutti perché non votato alla necessità del risultato personale, ma al percorso da far svolgere ai ragazzi.
La capacità e la disponibilità di mettersi in gioco da parte di un allenatore risulta perciò fondamentale anche se questi può contare su una lunga esperienza nel suo campo. Da una parte l’allenatore può essere convinto di gestire i ragazzi secondo alcune metodologie e comportamenti a livello ideale che sul campo poi non riesce a tradurre in maniera adeguata oppure non venir recepito dalla squadra come lui vorrebbe. D’altra parte deve essere tenuto in considerazione che le generazioni dei giovani cambiano nel tempo ed inevitabilmente vanno riviste le basi sulle quali fondare un rapporto allenatore- giocatore/ allievo.
In quest’ottica ho avuto modo di constatare come l’utilizzo di un questionario sul comportamento dell’allenatore risulti molto significativo anche grazie alla sua semplicità ed immediatezza. Il questionario, somministrato agli atleti e, ovviamente, all’allenatore, descrive alcuni atteggiamenti particolari che un coach può esprimere sia a livello di gestione sportiva e relazionale del gruppo, sia a livello tecnico.
Ciò che risulta interessante e particolarmente utile ai fini di un confronto propositivo a livello di spogliatoio, è l’analisi tra come l’allenatore crede di comportarsi nella sua gestione e come i ragazzi vivono la relazione e ciò che invece si auspicherebbero di ottenere da essa.
Il ruolo dell’allenatore rappresenta perciò una realtà piena di responsabilità e la psicologia sportiva in ambito giovanile può garantirgli un supporto importante fornendogli gli strumenti formativi in modo da costruire i metodi di intervento che gli sono più consoni.
Parlare di fattori psicologici come stress o ansia senza sapere quali meccanismi si mettono in moto, cosa si evita e cosa si ottiene, dove indagare o cambiare, significa non andare oltre il buon senso comune ed utilizzare quelle qualità “da psicologo” che ognuno pensa di avere.
Luca, guardia di una squadra di pallacanestro, tende a diventare nervoso durante la gara, e più l’incontro si fa difficile, più Luca si innervosisce perdendo lucidità e peggiorando drasticamente la sua prestazione.
Giovanna, ginnasta, ambisce ad entrare nel gruppo della nazionale, si allena con costanza e dedizione ed è decisa a migliorarsi giorno dopo giorno. Durante le prove in gara però, Giovanna non riesce a mantenersi focalizzata e concentrata e tale situazione genera in lei un senso di insicurezza. Questa condizione la porta ad incorrere in errori a causa dei quali non riesce a fare il sospirato salto di qualità.
Marco, coach di una squadra di pallavolo femminile di medio/ alto livello, è insoddisfatto perché le sue ragazze in campo, pur giocando con voglia e determinazione, non riescono a mettere in gara tutto il lavoro fatto in allenamento, perdendo in intensità e lucidità tanto da finir spesso per perdere partite a lungo dominate, anche con team tecnicamente inferiori.
Queste ed altre situazioni si verificano di continuo nello sport e frequentemente, al termine della gara, si sentono allenatori, atleti o dirigenti, spiegare una sconfitta ed una prestazione insoddisfacente parlando di calo di concentrazione, disattenzione, mentalità sbagliata, approccio psicologico non adeguato ed altri fattori inerenti l’aspetto mentale dell’atleta o della squadra.
La questione che però mi sorprende è rappresentata dal fatto che, a discapito di quanto dichiarato nella maggior parte dei casi circa l’importanza dell’aspetto psicologico, la preparazione mentale dell’atleta non ricopre un ruolo altrettanto significativo quanto quello atletico e tattico- tecnico.
È questo il motivo per cui credo che sia importante che le società sportive mettano a disposizione degli atleti e dello staff tecnico, un professionista che possa garantire un completamento del percorso di formazione, di crescita e miglioramento dal punto di vista dell’approccio psicologico attraverso incontri periodici di Mental coaching.
Accanto alla preparazione atletica e tecnico-tattica, un percorso di mental training supporta l’atleta ad essere maggiormente consapevole degli stati emotivi e cognitivi legati alla prestazione massimizzando, al tempo stesso, lo sviluppo di una serie di attività di base tra loro in relazione.
L’atleta, in questo modo, sarà in grado di gestire al meglio le fasi di preparazione in vista dell’evento sportivo, quelle immediatamente precedenti alla gara, quelle durante lo svolgimento della stessa e quelle successive, in maniera consapevole ed autonoma.
Solo quando la cura dell’aspetto psicologico verrà considerato al pari degli altri generalmente trattati come primari, si potrà parlare di un allenamento dell’atleta nella sua totalità di sportivo ed essere umano.
Nel giugno del 2012 si è concluso il rapporto di collaborazione professionale con il settore giovanile della pallacanestro Trieste. Un’esperienza particolarmente stimolante e formativa dal punto di vista personale come professionista a contatto con uno staff tecnico ed una dirigenza che ha saputo cogliere l’importanza di una figura come quella dello psicologo in affiancamento a quella tecnica nella gestione del settore giovanile.
Veder crescere i ragazzi sia individualmente in personalità e maturità, sia come atleti formando un gruppo affiatato fuori dal campo ed una squadra nei 28 metri del campo da basket, ha rappresentato un’esperienza davvero soddisfacente dal punto di vista professionale ed umano.
Un gruppo di giovani provenienti da realtà del basket cittadino diverse, abituati a metodologie di allenamento e messaggi formativi diversificati e, a volte preconfezionati, hanno trovato un’iniziale difficoltà a rapportarsi con un coach che chiedeva loro di osare, di scegliere, di essere atleti pensanti e crescere come squadra in modo da esaltare quelle che erano le loro abilità ancora non espresse.
Il lavoro congiunto con lo staff tecnico ci ha portato ad aprire la strada alla creazione di una struttura di squadra che ha iniziato giocando in maniera sfilacciata e basandosi solo sul talento di alcuni, fino a diventare un team che, superando timori e insicurezze che il nuovo corso aveva messo in luce, è stato capace di raggiungere le finali nazionali per 3 anni consecutivi grazie al fuoco ed alla consapevolezza individuale e di squadra, che il coach aveva acceso ed alimentato in ognuno dei protagonisti di questa avventura.
In concreto, nella mia esperienza con l’under 19 si è lavorato anzitutto sul coach e sulla sua personalità.
E’ l’allenatore infatti che si relaziona con i ragazzi, ed è a lui che si danno le chiavi per mandare certi messaggi e risolvere questioni singole o di squadra, trovando il giusto modo per farlo a seconda delle situazioni. In questo contesto l’allenatore si deve mettere in gioco, e soprattutto conoscere sé stesso e il modo in cui si pone verso i suoi atleti.
Nel caso particolare ho avuto la fortuna e l’onore di collaborare con un coach che, seppur forte di 25 anni di esperienza alle spalle, ha dimostrato grande apertura mentale, mettendosi a disposizione per trovare i canali giusti con cui costruire un ponte di comunicazione con i componenti della squadra.
In nessuna delle tre partecipazioni alle finali, la squadra ha mai giocato per il titolo, ma, come ho avuto già modo di osservare in un altro articolo di questo blog, la vittoria con la V maiuscola è stata il constatare, anno dopo anno, uno sviluppo corretto e sano, non solo dal punto di vista tecnico- tattico e fisico, ma anche da quello della personalità di ognuno dei ragazzi, alcuni dei quali fanno tuttora parte della formazione della prima squadra, se non addirittura della nazionale under 20 campione d’Europa.
I settori giovanili delle società sportive mettono l’allenatore di fronte ad una realtà spesso non semplice in virtù dei numerosi aspetti, non solo tecnici, ma soprattutto relazionali, che questi si trova ad affrontare.La funzione primaria dell’allenamento è quella di fornire al singolo ed alla squadra stimoli costanti e funzionali al loro sviluppo.
Durante le mie esperienze professionali è sempre stato primario il condividere l’idea che i giovani atleti non siano solamente “macchine neuromuscolari da programmare” ma, in primis, persone e ragazzi che stanno attraversando una delicata fase della propria crescita fino ad arrivare all’età adulta, da seguire in un percorso di presa di coscienza delle proprie potenzialità, dei propri limiti e degli obiettivi che si prefiggono. E’ in quest’ottica che si dovrebbe sviluppare il lavoro con i ragazzi, a partire cioè, dall’idea che la vittoria con la V maiuscola dovrebbe essere rappresentata da uno sviluppo corretto e sano, non solo dal punto di vista tecnico- tattico e fisico, ma anche da quello della personalità del giovane atleta.
Educare è un atto creativo nel quale è necessario confrontarsi con i ragazzi e non si risolve certamente nello svolgere sempre la stessa attività ogni giorno. È necessario procedere insieme, non quindi attraverso un rapporto dall’alto verso il basso, poichè un insegnamento a pioggia, uguale per tutti, non serve a molto.
I ragazzi sono tutti diversi l’uno dall’altro, ognuno è fatto a modo suo, con il proprio talento, e l’approccio dovrebbe essere quasi “ad personam”.
Nell’arte di formare persone si inserisce il concetto che un maestro, o educatore, non dovrebbe voler crescere discepoli, ma altri maestri. In questo senso, fin da piccoli, i ragazzi vanno instradati sul libero pensiero, andando oltre all’insegnamento che gli viene proposto, imparando a mettersi in gioco, liberi di fare e sbagliare, tentare ed osare, in modo da scoprire le proprie abilità esponendosi senza timore all’errore.
Lo sviluppo delle potenzialità passa inevitabilmente dalla crescita e dalla maturazione della persona; l’allenatore deve fungere da punto di riferimento che offre metodo, obiettivi, regole e comportamento, ma senza uniformare, concedendo la libertà di pensiero.
L’attività sportiva giovanile è spesso caratterizzata da episodi poco edificanti e per nulla educativi che vedono coinvolti alcuni genitori che mettono in atto tutta una serie di comportamenti che poco hanno a che fare con la figura che un adulto dovrebbe rappresentare ponendo in una situazione di forte stress e difficoltà i loro propri figli, privandoli, di fatto, della leggerezza e della spensieratezza che lo sport dovrebbe recare a livello giovanile.
Risulta abbastanza chiaro che né lo psicologo, né tanto meno la società possono intervenire direttamente ed in maniera significativa a riguardo perché si tratta, in ultima istanza, di un comportamento che quel tipo di genitore decide di adottare e che può solo essere parzialmente arginato.
Ma la società, altresì, può tentare di preservarsi fin dal principio della stagione, ponendo regole, limiti, ma anche gettando un ponte di collaborazione che renda il gruppo dei genitori più responsabili e parte del progetto.
Se definiamo con il termine “educativo” lo sport in età giovanile, ci riferiamo ad una condizione che prepara già nel bambino quella che sarà la vita dell’adulto, attraverso l’attività sportiva.
Attraverso il piacere nello svolgere una disciplina sportiva, essa stessa diviene uno strumento educativo sviluppando la capacita’ di pensare, criticare, scegliere, decidere, creare, programmare e progettare dentro limiti e norme che garantiscano la funzionalità personale e collettiva.
Fattori determinanti per raggiungere l’obiettivo educativo sono principalmente due: un ambiente sportivo professionale fatto di uno staff tecnico preparato, ed una realtà propositiva ed equilibrata dal punto di vista famigliare.
Risulta pertanto indispensabile un rapporto di sana collaborazione tra queste due realtà in modo da favorire la crescita e la maturazione di giovani menti nonché la formazione delle personalità attraverso l’attività sportiva, evitando di farla diventare un fattore di stress e mantenendo ben vivo e presente il diritto dei ragazzi al divertimento.
Spesso questo delicato meccanismo può venire destabilizzato dall’interferenza di elementi di disturbo, tra i quali, come detto, l’intromissione dei genitori sul lavoro dell’allenatore, invadendo lo spazio della relazione che si stabilisce tra questi ed i suoi allievi.
Ci sono genitori che invece di vedere nello sport l’opportunità di far crescere il figlio come persona, si aspettano dell’altro ed il loro modo di seguire l’attività del figlio, finisce con l’assomigliare sempre più al sistema di proporre l’attività sportiva in maniera frenetica, arrivista e, quindi ansiosa, tipica del mondo del professionismo e, in parte, dei mass- media.
Il rapporto con i genitori, perciò, rappresenta un aspetto, nell’ambito dell’attività sportiva giovanile, delicato quanto caratterizzato da equilibri sottili, che necessitano di una gestione attenta ma anche aperta ed allo stesso tempo risoluta.
In quest’ottica, uno dei modi migliori per stabilire una relazione di fiducia con i genitori, ed al tempo stesso fare un buon investimento per il futuro della stagione, è quello di organizzare un meeting pre-stagionale.
L’intento è quello di formulare un incontro pieno di significato, ma strutturato, dove tutti gli attori possano esprimere le loro perplessità, dubbi e volontà. Un incontro semplice ma che può risolvere molte soluzioni pratiche, durante il quale conoscersi, ascoltarsi, informarsi reciprocamente sugli obiettivi e sul modello educativo utilizzato attraverso l’attività sportiva.
Inoltre, non va sottovalutato il ruolo giocato dalle aspettative, che rappresentano una delle leve principali che muovono tutta una serie di comportamenti e approcci alla disciplina. Trovare perciò anche per i genitori un modo di esprimere le loro aspettative, parlare dell’idea di sport e, soprattutto di ciò che per loro rappresenta il successo, confrontandosi da subito con quella che è la filosofia della società, aiuta a stabilire linee di comunicazione sulle quali basare i rapporti durante la stagione.
In tal modo quando si parla di filosofia dell’allenamento, si vuol fare riferimento al concetto di educazione sportiva ed al modo in cui i coach educhino attraverso l’allenamento lavorando su tutti i ragazzi utilizando un metodo quasi “ad personam” in quanto ogni componente della squadra e’ diverso dagli altri, avendo il proprio vissuto famigliare, sportivo, emotivo e relazionale.
Altresì, si può far riferimento a come un pattern condiviso di regole di comportamento e di vita di squadra, sia necessario affinche’ un gruppo possa progredire sia a livello umano che tecnico.
Il modello educativo va quindi inteso come stimolo all’indipendenza di pensiero e alla formazione della personalità.
Il coach infatti propone ai ragazzi situazioni nelle quali viene chiesto loro di trovare la soluzione in modo da sviluppare la capacita’ di problem solving, stimolando cosi’ la fantasia, l’intuizione e la capacita’ di ragionare in maniera autonoma, senza paura di osare e di sbagliare.
Il diritto all’errore, infatti, rappresenta un altro concetto fondamentale, in quanto, non solo è un diritto che i ragazzi hanno, ma, di più, rappresenta il primo passo verso l’apprendimento.
Affrontare le diverse tappe che l’attivita’ sportiva propone accompagnata da ostacoli, difficolta’, soddisfazioni, vittorie e sconfitte, mette i ragazzi di fronte ad una realta’ nontanto diversa da cio’ che li aspetta nella vita futura.
Gli allenatori che condividono un determinato principio educativo lavorano in una precisa direzione dove al centro c’e’ l’individuo che necessita di messaggi equilibrati, propositivi e stimolanti per maturare dal punto di vista sportivo e umano.
Le finalità del meeting pre stagionale perciò sono rivolte a tutta una serie di aspetti organizzativi e “di relazione” con la volontà di favorire innanzitutto la conoscenza reciproca tra il gruppo di genitori e lo staff tecnico, presentando quelle che sono le risorse e le professionalità all’interno della società sportiva, quindi quella di informare sugli obiettivi dello sport giovanile così come considerati in società, nonché condividere con i genitori i punti cardine della filosofia di un approccio positivo e propositivo all’allenamento incoraggiandoli ad utilizzare anch’essi tale approccio.
In quest’ottica l’incontro vorrebbe stabilire chiare linee di comunicazione tra allenatore e genitore, evitando di andare incontro a situazioni di attrito ed incomprensioni durante la stagione, ma creando un ambiente collaborativo e quanto più educativo per i giovani atleti.
Il lavoro all’interno di un settore giovanile rappresenta uno scenario variegato e pieno di incognite, ma, al tempo stesso, stimolante ed istruttivo, per chiunque sia parte attiva di uno staff tecnico di una realtà sportiva.
Fare sport a livello giovanile richiede, al giorno d’oggi, una grossa responsabilità da parte degli istruttori- allenatori in quanto il giovane atleta si trova di fronte ad una realtà personale, famigliare, sociale e sportiva particolarmente difficile da gestire in particolare nel periodo adolescenziale puro, durante il quale il giovane sta creando la propria personalità, e si trova in mezzo ad un turbillon di stimoli esterni ed interni che poche volte riesce a gestire con rilassato approccio.
Lo psicologo dello sport, di conseguenza, si trova di fronte ad un quadro che racchiude in sè tanto l’aspetto psico- sportivo quanto quello educativo, avendo sì a che fare con tutti gli aspetti psicologici maggiormente a carattere sportivo inerenti l’approccio alla gara, l’allenamento ed il gesto tecnico, ma ugualmente, come detto, anche a tutta una gamma di situazioni relative alla crescita ed alla maturazione, non solo sportiva, degli atleti.
Ne consegue che alla base dell’intera architettura di un progetto, che voglio definire, psico- educativo, deve esserci piena e consapevole collaborazione tra il professionista psicologo ed il professionista coach. Laddove non sussistano tali basi non vi può essere una proficua collaborazione, né si possono sviluppare dei percorsi formativi favorevoli alla crescita sportiva e mentale dei ragazzi.
In alcuni ambienti sportivi, vi è ancora un atteggiamento diffidente nei riguardi dell’approccio psicologico allo sport; molti allenatori tendono a sentirsi defraudati del loro ruolo di punto di riferimento della squadra, non riconoscendo, probabilmente solo perchè non ne sono a conoscenza, l’apporto che una consulenza professionale di tipo psico- educativa può rendere sia a livello relazionale, allenatore- squadra, sia a livello di crescita degli atleti stessi.
E’ fondamentale, perciò, che il progetto parta dalla collaborazione e dall’intesa tra lo staff tecnico e lo psicologo sportivo; gli obiettivi, ma anche i presupposti e l’approccio al lavoro con i ragazzi, devono essere coincidenti per quanto riguarda gli aspetti principali di crescita e maturazione dell’atleta ed educazione allo sport.
L’obiettivo che un intervento psico- educativo in ambito sportivo si pone è quello di educare i ragazzi attraverso l’attività sportiva, cercando di sviluppare in loro l’autonomia, il libero pensiero, la libertà di creare e di osare (e quindi di sbagliare), indirizzandoli, al tempo stesso, secondo i principi di educazione, lavoro, impegno, rispetto e filosofia di gruppo, senza tralasciare il loro diritto alla fantasia ed al divertimento. In generale, a tutti i livelli, considerando la differenza di età, che sottende differenti richieste e responsabilità, si interviene sugli aspetti pedagogici, motivazionali e comunicativi, utilizzando i modelli comportamentali più opportuni che hanno come fondamento la percezione di competenza, basata sul soggetto e sulle sue abilità, piuttosto che sul compito, con conseguenze positive sulle relazioni, sul clima, sul lavoro di gruppo e, quindi, sulla motivazione.
Il coach, si inserisce in questo progetto educativo nella maniera che gli è più consona: allenando.
Egli trova le chiavi per affrontare le diverse realtà considerando ogni ragazzo diverso dagli altri e utilizzando un approccio quasi “ad personam”, all’interno di un sistema condiviso di regole rispetto alle quali invece tutti sono uguali.
Solo attraverso l’utilizzo di regole di comportamento, l’allenatore può porre le basi per una gestione del gruppo costruttiva e produttiva volta alla responsabilizzazione dei ragazzi, ma anche alla socializzazione ed all’unità di gruppo, senza dimenticare che un gruppo che rispetta le regole ha più possibilità di migliorare e progredire anche dal punto di vista tecnico e dei risultati proprio grazie all’approccio che ogni componente della squadra propone.
Un allenatore in questo modo può lavorare sullo sviluppo del pensiero, della capacità di valutare e prendere decisioni, e sulla libertà di esprimere sé stessi senza terrore di sbagliare, sensazione che spesso viene vissuta molto male dai giovani atleti.
Se educare significa anche stimolare, l’accettazione del concetto di errore come necessario per l’apprendimento ed il miglioramento, costituisce un passaggio obbligato nel corso della crescita non solo del giovane atleta ma anche del ragazzino.
Il coach infatti propone ai ragazzi situazioni nelle quali viene chiesto loro di trovare la soluzione per le quali hanno tutti gli strumenti necessari, in modo da sviluppare la capacità di problem solving nonché la fantasia ed un atteggiamento propositivo nell’affrontare e superare i propri limiti.
Superare le difficoltà, infatti, così come il mettersi alla prova e, di conseguenza, comprendere in maniera tangibile che con costanza e lavoro si possono superare gli ostacoli, sono aspetti educativi che rappresentano un ASSIST all’autostima, all’indipendenza, alla crescita ed alla scoperta di se stessi.
Ed è in quest’ottica che si vive in maniera diversa anche l’errore.
E’ necessario che sia chiaro che I RAGAZZI HANNO DIRITTO A FARE ERRORI, anzi, per certi versi, sbagliare è necessario!!!
Spesso ci si dimentica che sbagliare è il primo passo verso il successo, dove successo (uso questo termine volutamente), significa imparare a guardare l’errore senza timore e, con l’aiuto del coach, affrontarlo e trovare il modo per venirne fuori, cercando di dare il meglio di sé stessi.
L’accettazione dell’errore come aspetto positivo e pro-positivo evidenzia una mentalità piuttosto aperta ed indirizzata ad un tipo di percorso educativo che devo definire molto emancipato, anche se, di fatto non lo è. L’approccio che ci è stato tramandato da generazioni è quello che l’errore è uguale a fallimento, vergogna e biasimo, creando perciò un’aura di paura ed insicurezza nella personalità più fragili, guarda caso, come nella maggior parte dei giovani atleti.
Il ruolo della famiglia perciò, è quello di creare una realtà quanto più serena e propositiva, che sostenga il giovane, ma che lo ponga altresì di fronte alle proprie responsabilità.
Diverse indagini si sono interessate del ruolo dei genitori nell’ambito dello sport giovanile. L’interesse per questo aspetto deriva, però, dal crescente effetto negativo in seguito alla pressione esterna sui giovani atleti. Conseguentemente ragazzi inseriti in un ambiente estremamente competitivo, orientato al risultato, sono sovraccaricati da un bisogno di dimostrare la propria superiorità a causa dell’enfasi sui riconoscimenti esterni e sui feedback.
Infatti il coinvolgimento nell’attività fisica, da un punto di vista emotivo, motivazionale e di orientamento agli obiettivi, è fortemente influenzato (positivamente e negativamente), dal comportamento dei genitori.
Da questo punto di vista, credo che la presenza di uno psicologo sportivo nello staff tecnico di un settore giovanile, possa giovare alle relazioni, spesso molto difficili, tra genitori e lo staff stesso. Anche se il comportamento negativo dei genitori non potrà mai essere eliminato dallo sport giovanile, è possibile operare in modo da limitarlo, educando i genitori e migliorando le linee di comunicazione tra genitori e società sportiva.
Ho voluto affrontare quelli che sono alcuni dei temi principali che uno psicologo sportivo si trova a gestire in una realtà come quella di un settore giovanile, ma, come detto in principio, molti altri sono i punti di vista che l’attività sportiva giovanile mette di fronte a noi professionisti del settore, rendendo proprio per questo stimolante e coinvolgente il nostro apporto.