
In un percorso di Mental Training, le tecniche di intervento hanno come presupposto una corretta respirazione da parte dell’atleta.
La respirazione, come sappiamo, gioca un ruolo fondamentale nell’equilibrio psico- fisico di ogni essere vivente. L’utilizzo di opportuni esercizi rappresenta uno strumento volto all’abbassamento ed al controllo della tensione nervosa latente, alla gestione delle emozioni percepite (e spesso non esperite o espresse) con un possibile conseguente scioglimento dei blocchi emozionali e favorisce l’ossigenazione cerebrale e muscolo- scheletrica influendo positivamente su quello che possiamo chiamare il flusso vitale della persona.
Spesso, nelle mie esperienze precedenti, sia a livello giovanile che con atleti in età adulta, mi sono trovato difronte a persone che non avevano una respirazione corretta perché tendevano a respirare soprattutto a livello toracico. Per tal motivo, implementavo nel mio lavoro opportune sedute almeno a cadenza settimanale volte all’utilizzo delle corrette tecniche di respirazione.
La respirazione toracica non permette una completa ossigenazione delle cellule, poiché l’aria inspirata raggiunge in minima parte la base dei polmoni, che è la parte più ampia, dove avviene lo scambio gassoso. I polmoni, infatti, mescolano l’aria che respiriamo con il sangue; in tal modo l’ossigeno (O2) viene trasportato a tutte le cellule ed elimina l’anidride carbonica (CO2).
La respirazione, pur essendo un atto automatico ed involontario, viene comunque coordinata da alcuni centri cerebrali (il bulbo, ponte e midollo allungato) che vengono stimolati dall’anidride carbonica ad inviare informazioni ai muscoli coinvolti nel processo respiratorio determinando la frequenza, la profondità ed il ritmo del respiro.
L’apporto di ossigeno perciò è fondamentale per bruciare le sostanze nutritive e produrre energia; una sua carenza determina anche bassi livelli di vitalità, di produttività e di energia mentale e fisica.
Per tal motivo è fondamentale correggere il proprio stile respiratorio in maniera consapevole, in modo da acquisire uno strumento efficace tale da favorire l’equilibrio mente/ corpo.
Anche in ambito sportivo sussiste tale correlazione tra stato emotivo/ mentale e respirazione; apprendendo tecniche appropriate, possiamo davvero imparare a gestire e ad eliminare i sentimenti negativi, e facilitare la liberazione di pensieri ed emozioni represse, trattandole in maniera più consapevole, responsabile e creativo.
Le tecniche per lo più utilizzate sono la Respirazione anti-stress e la Respirazione Diaframmatica. Entrambe hanno come finalità la gestione consapevole della propria respirazione, il rallentamento della stessa, l’ampliamento dell’ossigenazione a livello muscolo- scheletrico e sono propedeutiche alle fasi di rilassamento e visualizzazione le quali, a loro volta, sono alla base di molti degli interventi in un percorso di Mental training.
La relazione che si instaura in ambito sociale tra operatore e persona disabile è spesso caratterizzata da un rapporto centrato sulla condivisione esperienziale nella quale vi sono due attori, l’operatore “sano” e l’operatore “con disagio” dove ognuno cura i limiti, gli impedimenti, gli ostacoli dell’altro in maniera più o meno consapevole percependone l’energia e interscambiando la propria realtà.
Le differenze, i ruoli, le responsabilità rimangono intatte, ognuno per quanto gli concerne, ma vi sono occasioni nelle quali tutto sembra livellarsi, perdere l’aspetto istituzionale, e, cosa più importante, si fa più sottile il gap determinato dal disagio.

Una di queste occasioni è rappresentata dallo sport.
Il valore educativo e formativo dell’attività sportiva è ampiamente riconosciuto sia a livello di sport individuale che di squadra.
Certamente vi sono limiti che non possono essere trascurati, perché il disagio, qualunque esso sia, non può e non deve essere sottovalutato o ignorato, ma a livello emotivo, psicologico ed esperienziale si può osservare un fenomeno che solo l’attività sportiva, e poche altre, possono offrire.
Quando si ha la fortuna di assistere, se non addirittura partecipare, ad un percorso educativo e riabilitativo che usi come strumento uno sport, in cui si rapportino operatori, volontari ed altre figure affini del mondo del sociale, e persone con un disagio (fisico o mentale), si ha la possibilità di constatare come in campo le distanze si accorcino, sia quelle sociali che quelle personali. La diversità diviene così una risorsa, una ricchezza ed un occasione per una crescita interiore per tutti i partecipanti.
Come ha avuto modo già di dimostrare coach Calamai nel suo mirabile lavoro con i ragazzi disabili introdotti alla pallacanestro attraverso il suo progetto sperimentale, quando persone disagiate vengono indirizzate, seguite e supportate, riescono a manifestare qualità fino allora inespresse poiché “il gioco rappresenta uno strumento di contatto speciale con tutti i ragazzi, compresi quelli in difficoltà, e questo deve essere sentito come un vantaggio, ma anche una responsabilità per chi lo usa” (da “Uno sguardo verso l’alto”, Marco Calamai, Franco Angeli, 2008).
Il potere dello sport è quello di rendere in campo tutti un pò più vicini, dove non c’è operatore e disabile, ma ci sono compagni di squadra che giocano per un obiettivo comune. L’attività sportiva permette a chi non ne ha avuto spesso l’occasione durante la propria vita, di recuperare quella dignità personale, indipendenza, spirito libero e riscoperta di se stessi che si può capire appieno solo attraverso lo sguardo di chi, giocando, dimentica le problematiche che lo accompagnano nel quotidiano.
Il ruolo dello psicologo sportivo in Italia, si sta diffondendo ormai con una certa frequenza sia per quel che riguarda l’ambito giovanile, sia come supporto per gli atleti professionisti.
Ancora oggi, però, lo psicologo dello sport deve fare i conti con una certa diffidenza da parte delle società sportive, degli staff tecnici e degli atleti stessi, che vedono e leggono nel termine “psicologo” ancora qualcosa da cui rifuggere e tenersi a distanza, perchè, a ragione, non credono di essere persone o alteti malati, ne tanto meno, vogliono ipotizzare tale possibilità.
Questo approccio, molto più frequente di quel che si possa credere, rappresenta uno degli ostacoli che ancora il professionista psicologo sportivo deve affrontare nel proporsi per un percorso di mental training, tanto che, a volte, il termine “mental coach” potrebbe apparire di maggiore impatto e meno allarmistico di quanto possa sembrare quello di psicologo.
É chiaro che da psicologo sportivo, che usa entrambi i termini solo per comodità, non ho intenzione di cadere in questo inganno semantico, anche e soprattutto perchè, io, come i miei colleghi, sappiamo bene cosa significhi la dicitura “psicologo dello sport”, ma risulta altresì chiaro che molto spesso, come categoria, dobbiamo, in sede di colloquio, dover infilare una sorta di spiegazione di quello che è il nostro ruolo, quasi dovendo assicurare che non dobbiamo curare delle persone malate o con qualche disagio mentale (e chi di voi lavora o ha avuto esperienze lavorative con persone portatrici di disagio mentale sa bene quale sia la differenza!), ma che il nostro ruolo è ben diverso, che operiamo sulla persona e sull’atleta al fine di migliorare il suo approccio mentale all’attività sportiva che svolge.
In altri casi la figura dello psicologo, che collabora con lo staff tecnico, ma mai vi si sovrappone nelle mansioni, è rigettata dagli allenatori stessi proprio per il timore di perdere in credibilità, leadership e autorità nei confronti della squadra.
La questione è che spesso si parla di psicologia applicata allo sport, ma in realtà pochi sanno di cosa si occupi realmente, che funzione abbia e come usarla.
I pregiudizi nascono proprio da qui, dalla scarsa conoscenza riguardo l’ambito di intervento, dalla convinzione che basta un pò di buon senso comune per affrontare, anche in sede di settore giovanile, fattori psicologici come ansia, paura, stress, blocchi, voglia o concentrazione senza conoscere i meccanismi che li mettono in moto.
E questo rappresenta un percorso che dovrebbe iniziare proprio dal settore giovanile, con i bambini e gli adolescenti dove gli allenatori/ educatori dovrebbero affrontare quelli che sono i bisogni (e non i problemi!) dei giovani atleti.
In tal modo la psicologia, sebbene sia la scienza che si interessa della mente (fattore essenziale nella prestazione sportiva come nella vita), come detto all’inizio, è sì in via di diffusione in ambito sportivo, ma non ancora abbastanza presente e rilevante, tanto quanto il fattore fisico/atletico e tecnico/tattico.
Volendo fare un pò di autocritica, il mondo che lo psicologo porta all’interno di una società sportiva, è piuttosto nuovo e poco esplorato, sia in termini di approccio lavorativo che rispetto al linguaggio utilizzato, ma è anche vero che lo sport spesso mette davanti a tutto il risultato immediato, togliendo di fatto la possibilità di lavorare sui tempi lunghi, cosa che in ambito giovanile, ma non solo, rappresenta l’annullamento di ogni progetto di crescita e progresso sportivo.
Ma più di qualcosa si sta muovendo su diversi fronti, anche se a fatica a livello professionistico soprattutto in relazione ad alcune discipline ancora troppo legate al passato ed alla tradizione.
In chiusura, desidero riportare un aneddoto che più di altri mi sembra significativo rispetto a quanto affermato circa i pregiudizi e le false conoscenze sul ruolo della psicologia nello sport.
Quando mi occupavo di seguire il settore giovanile di un team di Rugby, in una delle prime riunioni a cui partecipavano gli allenatori ed i dirigenti, qualcuno dichiarò, probabilmente per sottolineare in maniera indiretta il suo disaccordo con la presenza dello psicologo in squadra, che se avesse avuto dei ragazzi in squadra malati, allora e solo allora, li avrebbe portati dallo psicologo!
Si trattava di un’uscita effettivamente infelice, ma che dimostrava, e dimostra, a tutto tondo quale sia ancora la posizione di alcune realtà sportive in relazione all’aspetto psicologico, o psico-educativo nel caso dello sport giovanile, con la quale in alcuni casi si deve far fronte come professionisti del settore.
L’attività sportiva giovanile è spesso caratterizzata da episodi poco edificanti e per nulla educativi che vedono coinvolti alcuni genitori che mettono in atto tutta una serie di comportamenti che poco hanno a che fare con la figura che un adulto dovrebbe rappresentare ponendo in una situazione di forte stress e difficoltà i loro propri figli, privandoli, di fatto, della leggerezza e della spensieratezza che lo sport dovrebbe recare a livello giovanile.
Risulta abbastanza chiaro che né lo psicologo, né tanto meno la società possono intervenire direttamente ed in maniera significativa a riguardo perché si tratta, in ultima istanza, di un comportamento che quel tipo di genitore decide di adottare e che può solo essere parzialmente arginato.
Ma la società, altresì, può tentare di preservarsi fin dal principio della stagione, ponendo regole, limiti, ma anche gettando un ponte di collaborazione che renda il gruppo dei genitori più responsabili e parte del progetto.
Se definiamo con il termine “educativo” lo sport in età giovanile, ci riferiamo ad una condizione che prepara già nel bambino quella che sarà la vita dell’adulto, attraverso l’attività sportiva.
Attraverso il piacere nello svolgere una disciplina sportiva, essa stessa diviene uno strumento educativo sviluppando la capacita’ di pensare, criticare, scegliere, decidere, creare, programmare e progettare dentro limiti e norme che garantiscano la funzionalità personale e collettiva.
Fattori determinanti per raggiungere l’obiettivo educativo sono principalmente due: un ambiente sportivo professionale fatto di uno staff tecnico preparato, ed una realtà propositiva ed equilibrata dal punto di vista famigliare.
Risulta pertanto indispensabile un rapporto di sana collaborazione tra queste due realtà in modo da favorire la crescita e la maturazione di giovani menti nonché la formazione delle personalità attraverso l’attività sportiva, evitando di farla diventare un fattore di stress e mantenendo ben vivo e presente il diritto dei ragazzi al divertimento.
Spesso questo delicato meccanismo può venire destabilizzato dall’interferenza di elementi di disturbo, tra i quali, come detto, l’intromissione dei genitori sul lavoro dell’allenatore, invadendo lo spazio della relazione che si stabilisce tra questi ed i suoi allievi.
Ci sono genitori che invece di vedere nello sport l’opportunità di far crescere il figlio come persona, si aspettano dell’altro ed il loro modo di seguire l’attività del figlio, finisce con l’assomigliare sempre più al sistema di proporre l’attività sportiva in maniera frenetica, arrivista e, quindi ansiosa, tipica del mondo del professionismo e, in parte, dei mass- media.
Il rapporto con i genitori, perciò, rappresenta un aspetto, nell’ambito dell’attività sportiva giovanile, delicato quanto caratterizzato da equilibri sottili, che necessitano di una gestione attenta ma anche aperta ed allo stesso tempo risoluta.
In quest’ottica, uno dei modi migliori per stabilire una relazione di fiducia con i genitori, ed al tempo stesso fare un buon investimento per il futuro della stagione, è quello di organizzare un meeting pre-stagionale.
L’intento è quello di formulare un incontro pieno di significato, ma strutturato, dove tutti gli attori possano esprimere le loro perplessità, dubbi e volontà. Un incontro semplice ma che può risolvere molte soluzioni pratiche, durante il quale conoscersi, ascoltarsi, informarsi reciprocamente sugli obiettivi e sul modello educativo utilizzato attraverso l’attività sportiva.
Inoltre, non va sottovalutato il ruolo giocato dalle aspettative, che rappresentano una delle leve principali che muovono tutta una serie di comportamenti e approcci alla disciplina. Trovare perciò anche per i genitori un modo di esprimere le loro aspettative, parlare dell’idea di sport e, soprattutto di ciò che per loro rappresenta il successo, confrontandosi da subito con quella che è la filosofia della società, aiuta a stabilire linee di comunicazione sulle quali basare i rapporti durante la stagione.
In tal modo quando si parla di filosofia dell’allenamento, si vuol fare riferimento al concetto di educazione sportiva ed al modo in cui i coach educhino attraverso l’allenamento lavorando su tutti i ragazzi utilizando un metodo quasi “ad personam” in quanto ogni componente della squadra e’ diverso dagli altri, avendo il proprio vissuto famigliare, sportivo, emotivo e relazionale.
Altresì, si può far riferimento a come un pattern condiviso di regole di comportamento e di vita di squadra, sia necessario affinche’ un gruppo possa progredire sia a livello umano che tecnico.
Il modello educativo va quindi inteso come stimolo all’indipendenza di pensiero e alla formazione della personalità.
Il coach infatti propone ai ragazzi situazioni nelle quali viene chiesto loro di trovare la soluzione in modo da sviluppare la capacita’ di problem solving, stimolando cosi’ la fantasia, l’intuizione e la capacita’ di ragionare in maniera autonoma, senza paura di osare e di sbagliare.
Il diritto all’errore, infatti, rappresenta un altro concetto fondamentale, in quanto, non solo è un diritto che i ragazzi hanno, ma, di più, rappresenta il primo passo verso l’apprendimento.
Affrontare le diverse tappe che l’attivita’ sportiva propone accompagnata da ostacoli, difficolta’, soddisfazioni, vittorie e sconfitte, mette i ragazzi di fronte ad una realta’ nontanto diversa da cio’ che li aspetta nella vita futura.
Gli allenatori che condividono un determinato principio educativo lavorano in una precisa direzione dove al centro c’e’ l’individuo che necessita di messaggi equilibrati, propositivi e stimolanti per maturare dal punto di vista sportivo e umano.
Le finalità del meeting pre stagionale perciò sono rivolte a tutta una serie di aspetti organizzativi e “di relazione” con la volontà di favorire innanzitutto la conoscenza reciproca tra il gruppo di genitori e lo staff tecnico, presentando quelle che sono le risorse e le professionalità all’interno della società sportiva, quindi quella di informare sugli obiettivi dello sport giovanile così come considerati in società, nonché condividere con i genitori i punti cardine della filosofia di un approccio positivo e propositivo all’allenamento incoraggiandoli ad utilizzare anch’essi tale approccio.
In quest’ottica l’incontro vorrebbe stabilire chiare linee di comunicazione tra allenatore e genitore, evitando di andare incontro a situazioni di attrito ed incomprensioni durante la stagione, ma creando un ambiente collaborativo e quanto più educativo per i giovani atleti.
Il lavoro all’interno di un settore giovanile rappresenta uno scenario variegato e pieno di incognite, ma, al tempo stesso, stimolante ed istruttivo, per chiunque sia parte attiva di uno staff tecnico di una realtà sportiva.
Fare sport a livello giovanile richiede, al giorno d’oggi, una grossa responsabilità da parte degli istruttori- allenatori in quanto il giovane atleta si trova di fronte ad una realtà personale, famigliare, sociale e sportiva particolarmente difficile da gestire in particolare nel periodo adolescenziale puro, durante il quale il giovane sta creando la propria personalità, e si trova in mezzo ad un turbillon di stimoli esterni ed interni che poche volte riesce a gestire con rilassato approccio.
Lo psicologo dello sport, di conseguenza, si trova di fronte ad un quadro che racchiude in sè tanto l’aspetto psico- sportivo quanto quello educativo, avendo sì a che fare con tutti gli aspetti psicologici maggiormente a carattere sportivo inerenti l’approccio alla gara, l’allenamento ed il gesto tecnico, ma ugualmente, come detto, anche a tutta una gamma di situazioni relative alla crescita ed alla maturazione, non solo sportiva, degli atleti.
Ne consegue che alla base dell’intera architettura di un progetto, che voglio definire, psico- educativo, deve esserci piena e consapevole collaborazione tra il professionista psicologo ed il professionista coach. Laddove non sussistano tali basi non vi può essere una proficua collaborazione, né si possono sviluppare dei percorsi formativi favorevoli alla crescita sportiva e mentale dei ragazzi.
In alcuni ambienti sportivi, vi è ancora un atteggiamento diffidente nei riguardi dell’approccio psicologico allo sport; molti allenatori tendono a sentirsi defraudati del loro ruolo di punto di riferimento della squadra, non riconoscendo, probabilmente solo perchè non ne sono a conoscenza, l’apporto che una consulenza professionale di tipo psico- educativa può rendere sia a livello relazionale, allenatore- squadra, sia a livello di crescita degli atleti stessi.
E’ fondamentale, perciò, che il progetto parta dalla collaborazione e dall’intesa tra lo staff tecnico e lo psicologo sportivo; gli obiettivi, ma anche i presupposti e l’approccio al lavoro con i ragazzi, devono essere coincidenti per quanto riguarda gli aspetti principali di crescita e maturazione dell’atleta ed educazione allo sport.
L’obiettivo che un intervento psico- educativo in ambito sportivo si pone è quello di educare i ragazzi attraverso l’attività sportiva, cercando di sviluppare in loro l’autonomia, il libero pensiero, la libertà di creare e di osare (e quindi di sbagliare), indirizzandoli, al tempo stesso, secondo i principi di educazione, lavoro, impegno, rispetto e filosofia di gruppo, senza tralasciare il loro diritto alla fantasia ed al divertimento. In generale, a tutti i livelli, considerando la differenza di età, che sottende differenti richieste e responsabilità, si interviene sugli aspetti pedagogici, motivazionali e comunicativi, utilizzando i modelli comportamentali più opportuni che hanno come fondamento la percezione di competenza, basata sul soggetto e sulle sue abilità, piuttosto che sul compito, con conseguenze positive sulle relazioni, sul clima, sul lavoro di gruppo e, quindi, sulla motivazione.
Il coach, si inserisce in questo progetto educativo nella maniera che gli è più consona: allenando.
Egli trova le chiavi per affrontare le diverse realtà considerando ogni ragazzo diverso dagli altri e utilizzando un approccio quasi “ad personam”, all’interno di un sistema condiviso di regole rispetto alle quali invece tutti sono uguali.
Solo attraverso l’utilizzo di regole di comportamento, l’allenatore può porre le basi per una gestione del gruppo costruttiva e produttiva volta alla responsabilizzazione dei ragazzi, ma anche alla socializzazione ed all’unità di gruppo, senza dimenticare che un gruppo che rispetta le regole ha più possibilità di migliorare e progredire anche dal punto di vista tecnico e dei risultati proprio grazie all’approccio che ogni componente della squadra propone.
Un allenatore in questo modo può lavorare sullo sviluppo del pensiero, della capacità di valutare e prendere decisioni, e sulla libertà di esprimere sé stessi senza terrore di sbagliare, sensazione che spesso viene vissuta molto male dai giovani atleti.
Se educare significa anche stimolare, l’accettazione del concetto di errore come necessario per l’apprendimento ed il miglioramento, costituisce un passaggio obbligato nel corso della crescita non solo del giovane atleta ma anche del ragazzino.
Il coach infatti propone ai ragazzi situazioni nelle quali viene chiesto loro di trovare la soluzione per le quali hanno tutti gli strumenti necessari, in modo da sviluppare la capacità di problem solving nonché la fantasia ed un atteggiamento propositivo nell’affrontare e superare i propri limiti.
Superare le difficoltà, infatti, così come il mettersi alla prova e, di conseguenza, comprendere in maniera tangibile che con costanza e lavoro si possono superare gli ostacoli, sono aspetti educativi che rappresentano un ASSIST all’autostima, all’indipendenza, alla crescita ed alla scoperta di se stessi.
Ed è in quest’ottica che si vive in maniera diversa anche l’errore.
E’ necessario che sia chiaro che I RAGAZZI HANNO DIRITTO A FARE ERRORI, anzi, per certi versi, sbagliare è necessario!!!
Spesso ci si dimentica che sbagliare è il primo passo verso il successo, dove successo (uso questo termine volutamente), significa imparare a guardare l’errore senza timore e, con l’aiuto del coach, affrontarlo e trovare il modo per venirne fuori, cercando di dare il meglio di sé stessi.
L’accettazione dell’errore come aspetto positivo e pro-positivo evidenzia una mentalità piuttosto aperta ed indirizzata ad un tipo di percorso educativo che devo definire molto emancipato, anche se, di fatto non lo è. L’approccio che ci è stato tramandato da generazioni è quello che l’errore è uguale a fallimento, vergogna e biasimo, creando perciò un’aura di paura ed insicurezza nella personalità più fragili, guarda caso, come nella maggior parte dei giovani atleti.
Il ruolo della famiglia perciò, è quello di creare una realtà quanto più serena e propositiva, che sostenga il giovane, ma che lo ponga altresì di fronte alle proprie responsabilità.
Diverse indagini si sono interessate del ruolo dei genitori nell’ambito dello sport giovanile. L’interesse per questo aspetto deriva, però, dal crescente effetto negativo in seguito alla pressione esterna sui giovani atleti. Conseguentemente ragazzi inseriti in un ambiente estremamente competitivo, orientato al risultato, sono sovraccaricati da un bisogno di dimostrare la propria superiorità a causa dell’enfasi sui riconoscimenti esterni e sui feedback.
Infatti il coinvolgimento nell’attività fisica, da un punto di vista emotivo, motivazionale e di orientamento agli obiettivi, è fortemente influenzato (positivamente e negativamente), dal comportamento dei genitori.
Da questo punto di vista, credo che la presenza di uno psicologo sportivo nello staff tecnico di un settore giovanile, possa giovare alle relazioni, spesso molto difficili, tra genitori e lo staff stesso. Anche se il comportamento negativo dei genitori non potrà mai essere eliminato dallo sport giovanile, è possibile operare in modo da limitarlo, educando i genitori e migliorando le linee di comunicazione tra genitori e società sportiva.
Ho voluto affrontare quelli che sono alcuni dei temi principali che uno psicologo sportivo si trova a gestire in una realtà come quella di un settore giovanile, ma, come detto in principio, molti altri sono i punti di vista che l’attività sportiva giovanile mette di fronte a noi professionisti del settore, rendendo proprio per questo stimolante e coinvolgente il nostro apporto.