Il ruolo dello psicologo sportivo in Italia, si sta diffondendo ormai con una certa frequenza sia per quel che riguarda l’ambito giovanile, sia come supporto per gli atleti professionisti. Ancora oggi, però, lo psicologo dello sport deve fare i conti con una certa diffidenza da parte delle società sportive, degli staff tecnici e degli atleti stessi, che vedono e leggono nel termine “psicologo” ancora qualcosa da cui rifuggere e tenersi a distanza, perchè, a ragione, non credono di essere persone o alteti malati, ne tanto meno, vogliono ipotizzare tale possibilità. Questo approccio, molto più frequente di quel che si possa credere, rappresenta uno degli ostacoli che ancora il professionista psicologo sportivo deve affrontare nel proporsi per un percorso di mental training, tanto che, a volte, il termine “mental coach” potrebbe apparire di maggiore impatto e meno allarmistico di quanto possa sembrare quello di psicologo. É chiaro che da psicologo sportivo, che usa entrambi i termini solo per comodità, non ho intenzione di cadere in questo inganno semantico, anche e soprattutto perchè, io, come i miei colleghi, sappiamo bene cosa significhi la dicitura “psicologo dello sport”, ma risulta altresì chiaro che molto spesso, come categoria, dobbiamo, in sede di colloquio, dover infilare una sorta di spiegazione di quello che è il nostro ruolo, quasi dovendo assicurare che non dobbiamo curare delle persone malate o con qualche disagio mentale (e chi di voi lavora o ha avuto esperienze lavorative con persone portatrici di disagio mentale sa bene quale sia la differenza!), ma che il nostro ruolo è ben diverso, che operiamo sulla persona e sull’atleta al fine di migliorare il suo approccio mentale all’attività sportiva che svolge. In altri casi la figura dello psicologo, che collabora con lo staff tecnico, ma mai vi si sovrappone nelle mansioni, è rigettata dagli allenatori stessi proprio per il timore di perdere in credibilità, leadership e autorità nei confronti della squadra. La questione è che spesso si parla di psicologia applicata allo sport, ma in realtà pochi sanno di cosa si occupi realmente, che funzione abbia e come usarla. I pregiudizi nascono proprio da qui, dalla scarsa conoscenza riguardo l’ambito di intervento, dalla convinzione che basta un pò di buon senso comune per affrontare, anche in sede di settore giovanile, fattori psicologici come ansia, paura, stress, blocchi, voglia o concentrazione senza conoscere i meccanismi che li mettono in moto. E questo rappresenta un percorso che dovrebbe iniziare proprio dal settore giovanile, con i bambini e gli adolescenti dove gli allenatori/ educatori dovrebbero affrontare quelli che sono i bisogni (e non i problemi!) dei giovani atleti. In tal modo la psicologia, sebbene sia la scienza che si interessa della mente (fattore essenziale nella prestazione sportiva come nella vita), come detto all’inizio, è sì in via di diffusione in ambito sportivo, ma non ancora abbastanza presente e rilevante, tanto quanto il fattore fisico/atletico e tecnico/tattico. Volendo fare un pò di autocritica, il mondo che lo psicologo porta all’interno di una società sportiva, è piuttosto nuovo e poco esplorato, sia in termini di approccio lavorativo che rispetto al linguaggio utilizzato, ma è anche vero che lo sport spesso mette davanti a tutto il risultato immediato, togliendo di fatto la possibilità di lavorare sui tempi lunghi, cosa che in ambito giovanile, ma non solo, rappresenta l’annullamento di ogni progetto di crescita e progresso sportivo. Ma più di qualcosa si sta muovendo su diversi fronti, anche se a fatica a livello professionistico soprattutto in relazione ad alcune discipline ancora troppo legate al passato ed alla tradizione.
In chiusura, desidero riportare un aneddoto che più di altri mi sembra significativo rispetto a quanto affermato circa i pregiudizi e le false conoscenze sul ruolo della psicologia nello sport. Quando mi occupavo di seguire il settore giovanile di un team di Rugby, in una delle prime riunioni a cui partecipavano gli allenatori ed i dirigenti, qualcuno dichiarò, probabilmente per sottolineare in maniera indiretta il suo disaccordo con la presenza dello psicologo in squadra, che se avesse avuto dei ragazzi in squadra malati, allora e solo allora, li avrebbe portati dallo psicologo! Si trattava di un’uscita effettivamente infelice, ma che dimostrava, e dimostra, a tutto tondo quale sia ancora la posizione di alcune realtà sportive in relazione all’aspetto psicologico, o psico-educativo nel caso dello sport giovanile, con la quale in alcuni casi si deve far fronte come professionisti del settore.
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